Nagisa – Un cinema senza parole – Recensione

Nagisa – Recensione

Trovo che sia impressionante notare – in questo caso – la  mia capacità di diventare egocentrica quando scrivo un articolo per questa testata, non a caso la mia preferita in assoluto. Ed è qui, proprio qui, che intesserò un elogio a Nagisa, film giapponese che ha ottenuto la menzione speciale come Miglior lungometraggio internazionale, che ho avuto il piacere e l’onore di vedere in proiezione stampa al Festival del Cinema di Torino, giunto a quarant’anni.

Nonostante l’età si stia facendo veneranda, non perde colpi il nostro caro festival e, anche quest’anno, ci propone dei film che meritano qualche parola in più. Ammetto, ma chi ha letto qualche mio sproloquio sotto forma di articolo l’avrà già abbondantemente notato, che sono una grande fan del cinema orientale, in particolar modo di quello coreano e giapponese. Perché (contrariamente a quello occidentale che è un cinema di parola e, quindi, basato sulla sceneggiatura) il cinema d’estremo Oriente si serve quasi esclusivamente di immagini. Vi faccio degli esempi: Kim ki-duk, che è un grande regista coreano morto recentemente, ha realizzato film nei quali i protagonisti a stento si parlavano, lungometraggi che erano interamente basati sulla potenza visiva. Penso che fosse questa sua caratteristica ad attirarmi maggiormente: quanto nei suoi film, la parola diventasse superflua, perfino scomoda. E lo stesso discorso si potrebbe fare per un film come Nagisa, nel quale i dialoghi, lì dove presenti, sono solo brusio, rumore insondabile ed evanescente.

Un film quasi senza sceneggiatura

In Nagisa le parole non solo non occorrono, ma distolgono l’attenzione. Sono un fastidioso ed inutile riempitivo. Quello a cui davvero lo spettatore deve badare è quello che vede. Basta, null’altro. Mentre mi trovavo nella sala destinata alla stampa notavo tanti colleghi alzarsi, cambiare posto, agitarsi sulla poltrona, uscire fuori. Si comportavano, insomma, come dei bambini a teatro. Incapaci di stare buoni e di mantenere lo sguardo fisso sullo schermo. Eppure, per me che sono così tanto legata a questo tipo di film, a queste immagini senza voce, a queste sequenze eterne e, perfino, disarticolate, è stata una straordinaria lezione di cinema, una lezione che come ho scritto tante volte dovrebbe essere appresa dai nostri cineasti.

Il regista, Takeshi Kogahara, ha sempre realizzato cortometraggi pubblicitari e, quindi, è abituato a fare un grande uso dell’immagine. Si nota dalle lunghe sequenze, dall’attenzione riservata ad alcuni dettagli del volto, presi sempre di sbieco, da diverse angolature ma mai interamente, come il primo piano del volto della sorellina del protagonista; dall’attenzione per gli oggetti, le stanze così piene di qualunque tipo di utensile, eppure così vuote, e il grande uso di luci, soprattutto rosse, che, non so se sapete, è la firma del cinema erotico cinese. Questo suo primissimo lungometraggio è la continuazione poetica di una certa estetica, che non dà tanta importanza alla complessità dei dialoghi e dell’intreccio, per l’appunto, ma che vuole che lo spettatore indovini quello che succede e si faccia confondere o guidare da quello che vede.

Un cinema tra solitudine e assenza dei genitori

Non voglio svelare la trama, perché dovrei necessariamente fare spoiler, ma mi limiterò a dire che è una storia familiare. Parla di un fratello e di una sorella, di un rapporto particolarmente intenso ed esclusivo, un rapporto che è nato e cresciuto nella solitudine, nelle difficoltà, nel totale abbandono. Un rapporto che lascia fuori gli adulti e chiunque altro provi ad avvicinarsi. La solitudine è l’eterno ritorno dei lungometraggi in concorso, così come l’attenzione alla figura femminile. Ne parlerò ancora e ancora, ma in tal caso mi soffermerò soprattutto sullo stato di abbandono nel quale versano i due protagonisti di questo lungometraggio made in Japan e sulla totale assenza dei genitori. Perché il cinema di questi anni sta diventando un’epopea su come i figli siano costretti ad affrontare il mondo senza genitori? Perché è un cinema che sottolinea e analizza i danni apportati dall’abbandono? Sarà, forse, perché lo spettatore veda che, nonostante le vessazioni e la solitudine, i figli trovano la forza di andare avanti?

Assistiamo ad un superamento del complesso di Telemaco e ad una rivincita del figlio per eccellenza: non vediamo più figli che cercano i padri, ma ragazzi e ragazze che trovano in sé la forza di andare avanti. Malgrado tutte le difficoltà e il dolore che devono sperimentare, malgrado prima o poi dovranno perdonare i genitori per averli costretti a divenire forti anzitempo. Ma di questo parla estesamente un altro film in concorso, un’altra opera prima: La hija de todas las rabias. Quindi, tempo al tempo. Ne parlerò tra pochissimo. Per ora, sappiate che il film è stato premiato per i motivi giusti e, cioè, per l’originalità con cui si dispiega la trama e per l’estrema lontananza (da noi) e la raffinatezza di una tecnica cinematografica e narrativa che dovremmo imparare a fare nostra. Non potrà che arricchire il nostro meraviglioso cinema. 

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Nasce nella provincia barese in quel del '94 con l'assoluta certezza di essere Batman. È in grado di vedere sette film al giorno e di finirsi una serie tv in tempi sovrumani. Peccato che abbia anche una vita sociale, altrimenti adesso sarebbe nel Guinness dei primati...