Decision to Leave – Recensione
Non stupisce che un regista straordinario come Park Chan-wook, che ha fatto strage di cuori in Occidente sin dalla Trilogia della Vendetta (Mr. Vendetta, Old Boy e Lady Vendetta), abbia vinto a Cannes il premio per la regia di Decision to Leave. Sarebbe stato assurdo il contrario, perché tecnicamente è un film eccellente.
La regia è magistrale, la fotografia è straordinariamente curata, tra chiaroscuri, nel passaggio da scene claustrofobiche ad alcune di più ampio respiro, al mare, in montagna. Bellissime le scene di interni, in queste case che rappresentano i personaggi e che dicono molto di loro, delle loro paure, delle loro ossessioni. Straordinario il montaggio, ma si sa: Park Chan-wook è un maestro, uno dei più grandi registi del nostro tempo e, forse, il miglior regista coreano.
In film come Stoker e Mademoiselle, la fotografia e l’estetica hanno raggiunto dei livelli altissimi. Giustamente è stato definito un regista visionario che, come molti dell’estremo Oriente, non dà particolare importanza alla sceneggiatura. In Decision to Leave si nota: i dialoghi sono in certi punti arrabattati, poco plausibili e chiari, e senza che vi siano ragioni effettive per lasciare così sfumato e impreciso il discorso. Eppure, vi sono anche momenti di alta poesia, che incantano e colpiscono lo spettatore. Una tecnica che chi ha amato Old Boy non potrà che apprezzare. Pensiamo a quella straordinaria frase che Oh Dae-su recita in questo film del 2003: “sebbene io sappia di essere peggio di una bestia, non crede che abbia anch’io il diritto di vivere?“.
Una regia da capogiro
Park Chan-wook ha il potere di spiazzare lo spettatore e lo fa anche con Decision to Leave, il suo nuovo film, disponibile nelle sale dal 2 febbraio. Solo che non lo fa come al solito. Non ci sono grandi stravolgimenti di trama, di thriller c’è ben poco, di sorprendente (sempre a livello di trama) ben poco. Ed è un vero peccato perché si va in sala, a causa della pubblicità fuorviante di Lucky Red, con la sensazione di trovarsi davanti ad un film nel solito stile del regista sudcoreano e, invece, ci si trova di fronte a tutt’altro. Anche i molti dettagli che vengono forniti sui protagonisti non sono mezzi per spiazzare lo spettatore, ma ulteriori modi per conoscerli. E ne vengono forniti talmente tanti che alla fine non vi è nulla da scoprire.
Lo spettatore può indovinare tutto (magari restare sorpreso e perplesso di fronte al finale) perché ha già tutti gli elementi in mano. Resterà, però incollato allo schermo grazie alla colonna sonora incalzante e alla bellezza delle inquadrature e per quelle frasi spiazzanti, poetiche, che riecheggeranno nella mente, come una certa canzone che si sente costantemente nel film. Riderà perfino, perché l’ispettore, interpretato da Park Hae-il, viene sempre accompagnato da figure macchiettistiche, al limite del comico, che attraverso le battute e un’innaturale goffaggine, fanno da contrasto alla serietà dell’ispettore. Anche se, in ogni caso, non prenderanno lucciole per lanterne come fa invece il protagonista, affascinato dalla bellissima (e bravissima) Song Seo-rae.
Non il thriller che ci aspettiamo
Il film è in grado di tenervi incollati allo schermo, ma non è un thriller, non come Park ci ha abituati. Perciò, nel momento in cui vi siederete sulle poltrone del cinema, gustando dei popcorn e una bevanda gassata, miei cari e innumerevoli lettori, molteplici come le stelle nel cielo e i granelli di sabbia del Sahara, sappiate che il trailer è ingannevole e che dovete solo lasciarvi guidare dal flusso. Tanto capirete tutto dal primo momento. L’unico che non capisce niente è il detective e, proprio come lui, non riuscirete neppure a battere le palpebre per l’intera durata del film.
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