Sull’Adamant – Recensione – Nicolas Philibert (2023)

Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile – Recensione – Nicolas Philibert

Complice l’uscita in streaming imminente su IWONDERFULL Prime Video Channel, ho avuto l’occasione di recuperare la pellicola vincitrice dell’Orso D’Oro di Berlino 2023, Sull’Adamant, del regista francese Nicolas Philibert, e sono pronto a darvi un’idea di cosa vi aspetta, nel caso vogliate cimentarvi nella visione… ovviamente senza spoiler.

Sull’Adamant, di Nicolas Philibert, è il primo film di una trilogia che il regista sta per concludere (At Averroes & Rosa Parks è già stato presentato alla Berlinale Special 2024, mentre poi arriverà il terzo capitolo) sulla realtà della psichiatria in Francia.

Philibert è uno dei cuori pulsanti del cinema del reale, e da anni crea documentari di ogni tipo, su tantissimi argomenti, ma sembra avere una passione particolare per la psicologia e la psichiatria, non essendo la prima volta che si cimenta in un’opera con questa tematica.

Nel caso specifico di “Sull’Adamant” più che di documentario mi piacerebbe parlare di “finestra” o “portale” e vi spiego perchè.

La storia di Sull’Adamant è quella dell’omonimo battello a vapore dismesso, ormeggiato sulla riva destra della Senna accanto al Pont Charles-de-Gaulle, a Parigi, attualmente sede di una struttura d’accoglienza diurna per persone affette da patologie di tipo psichiatrico, con un bar gestito dagli stessi ospiti della struttura e numerosi laboratori per lo più artistici, come la scuola di cucito, quella di pittura ed espressione artistica, gli esercizi a corpo libero, i laboratori musicali e anche un cineforum.

A questo punto Philibert avrebbe potuto costruire su questa struttura una storia specifica, elaborare delle inquadrature complesse, intervenire personalmente nelle dinamiche interne al centro d’accoglienza per rendere il film più avvincente, stimolando i personaggi all’interazione e invece no.

Con grandissima sensibilità e voglia di restituire un’immagine trasparente quanto il diamante, che all’imbarcazione da il nome, Philibert si limita ad offrirci delle inquadrature fisse, con qualche zoomata sporadica, e lascia campo libero alle persone che popolano l’Adamant.

Ci ritroveremo così catapultati all’interno della struttura, o meglio a spiarla dall’esterno, utilizzando lo schermo dal quale stiamo vedendo il film come fosse una finestra o un portale.

Il regista non fa domande ai personaggi delle varie scene, nemmeno quando questi sono gli unici interlocutori con lui e la sua telecamera, lasciando quasi che siano i pazienti stessi ad intervistare lui, “sforzandosi” in autonomia di instaurare con lui un dialogo.

Philibert decide di non spiegare nulla e nemmeno di dirci chi sono i pazienti e chi i medici o il personale interno, facendo in modo che “ognuno possa leggere nelle immagini ciò che vuole”, proprio come uno dei pazienti della struttura dice agli altri pazienti, mostrando un suo disegno al laboratorio di pittura.

Sull’Adamant si ritrova così ad essere un film dal ritmo tanto altalenante quanto sinuoso, che riesce ad avvolgere e catturare sia nei momenti un filo più concitati o ritmati e sia nei momenti di calma piatta totale, dando anche molto risalto ai suoni ambientali che circondano la struttura.

Il silenzio diventa anch’esso fulcro dell’opera, facendo concentrare lo spettatore a 360° su ogni aspetto, visivo o sonoro delle scene cui si sta approcciando.

L’Adamant si rivela essere come un piccolo paesino microscopico, abitato da persone con grandi difficoltà, con problematiche tanto invisibili quanto invasive, che insieme cercano di rendere più “normali” le loro giornate, rompendo gli schemi dei ricoveri ospedalieri forzati e cercando di fare gruppo, di aprirsi al dialogo, all’accoglienza e di riuscire a superare le difficoltà sapendo di essere attorniati da persone che vivono delle simili complessità quotidiane.

Le interviste singole, fatte con alcuni dei frequentatori abituali della struttura, sono il fiore all’occhiello dell’opera, perchè ci portano a conoscere pezzi di vita di persone che a modo loro cercano talvolta di spiegare le loro problematiche o il loro disagio, altre volte di raccontarci i traumi che hanno portato poi alla nascita dei loro problemi, altre volte ancora che ci raccontano semplici avvenimenti o incredibili e fantasiose storie, chissà quanto vere.

La libertà d’interpretazione lasciata dal regista, almeno nei miei confronti di spettatore, è riuscita a farmi immergere totalmente nel film. Nonostante la dilatazione temporale e la mancanza di scene topiche o memorabili, mi sono ritrovato a pensare che il film fosse durato molto meno della sua durata effettiva di un’ora e cinquanta minuti circa e questo la dice lunga sul fatto che io mi sia lasciato coinvolgere tanto dall’opera.

Ogni personaggio, a modo suo, mi ha lasciato qualcosa ed a conti fatti mi sento di consigliare la visione del film a chiunque, perchè credo che chiunque possa essere colpito in qualche modo da quest’opera.

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Valerio "Raziel" Vega: Napoletano a Roma, Tecnico Ortopedico di giorno, Retrogamer compulsivo di notte. Creatore del progetto Nerdream, amante del cinema, delle serieTV, dei fumetti e di tutto ciò che è fottutissimamente NERD, sogna una vecchiaia con una dentiera solida ed il pad di un NES tra le mani. Il suo motto è “Ama il prossimo tuo come hai amato il tuo Commodore64”