Sono passati 100 anni dall’uscita negli Stati Uniti di uno dei più grandi capolavori di Chaplin e della storia del Cinema: Il monello (The kid), un film del 1921.
E sembra davvero impossibile cominciare a festeggiare i 100 anni di un’opera cinematografica. Eppure la più giovane delle arti comincia a spegnere davvero 100 candeline sulle sue opere.
Il festeggiamento in questo caso è doppio, poiché soltanto 10 anni dopo nel 1931 esce un altro capolavoro della cinematografia creato sempre da Chaplin: Luci della città.
Questa doppia celebrazione di due film così diversi ma così simili negli intenti ci portano a confermare ora con certezza, col famoso senno di poi, un paragone che negli anni si è ripetuto spesso e volentieri: quello fra Charles Chaplin e un grande letterato suo connazionale come Charles Dickens.
Per intenti, personaggi, atmosfere delle sue opere infatti Chaplin può davvero essere definito il Dickens della cinematografia. Se pensiamo infatti alla tematica dell’infanzia difficile e della bontà di alcuni personaggi che diventano salvifici nelle opere di Dickens non possiamo non paragonare questi due autori di arti diverse, non soltanto nelle loro opere ma anche nei tratti biografici. Va ricordato infatti che Dickens cresce nella povertà del quartiere di Camden Town (a inizio ‘800 uno dei più poveri di Londra) e Chaplin vive in prima persona un’infanzia turbolenta nella povertà estrema della propria famiglia poi impossibilitata a mantenerlo (trascorre anni in collegio), sempre nelle periferie di Londra. Se Dickens trova rifugio nella lettura, Chaplin fin da piccolo scopre la passione per le performance, il circo, la recitazione, il mimo e su tutte quella per lo storytelling.
Il grido di disperazione più forte di questa situazione sociale viene già dipinto nel Monello, un film muto che presenta uno dei massimi esempi di sonoro del cinema di tutti i tempi. Chi può dimenticare il grido disperato sul primo piano dell’attore che interpreta il monello, Jackie Coogan, nel momento in cui la sua unica figura di riferimento, quella di un vagabondo che il mondo avrebbe ben presto conosciuto col nome di Charlot, si stava allontanando da lui?
E soprattutto chi può dimenticare il loro abbraccio ritrovato? Sembrerebbe una scena scritta da Dickens per uno dei suoi romanzi sull’infanzia e sulla formazione. (Non è forse un caso che l’anno successivo Coogan interpreti Oliver Twist nella prima riduzione cinematografica del libro di Dickens).
Eppure è Chaplin e parla con un linguaggio assolutamente nuovo: un linguaggio che sta sperimentando da pochi anni, che sta trovando la sua dimensione, che ancora in un’epoca senza sonoro sta riuscendo a introdurre come non mai un grido dirompente: il grido della disperazione che racconta la verità ma racconta anche la bontà intrinseca nell’uomo, come avrà a ribadire nel famoso monologo del Grande dittatore 20 anni più tardi.
E quindi Il monello ha 100 anni. Lo scrivo di nuovo, perché stento a crederlo anche io.
E suscita una certa emozione dire che questo film nello specifico raggiunge questo traguardo perché una pellicola come questa appartiene a un filone speciale del cinema: quello che racconta l’uomo. Appartiene al filone di film come La vita è meravigliosa di Capra, I migliori anni della nostra vita di Wyler, per poi arrivare a opere della nouvelle vague francese. Il filone che prende in analisi la vita degli uomini, quel cinema che parla di noi, con tutte le immense debolezze, le enormi cattiverie e anche le infinite qualità che possediamo.
Altri film importanti per il linguaggio cinematografico hanno da poco spento le candeline sul loro primo secolo di vita, da Le voyage dans la lune di Méliès del 1902, a Nascita di una nazione e Intolerance di Griffith, a Il gabinetto del dottor Caligari di Wiene del 1920 ma è nel Monello, un piccolo film, girato con piccoli mezzi, scenografie quasi quotidiane (anche se con momenti “fantastici” come quello del sogno con gli angeli) e che ci mostra piccole persone comuni che il cinema trova il suo perché e la sua vera dimensione.
Potremmo quasi dire che il cinema per come lo conosciamo, con quell’effetto salvifico e catartico che porta intrinsecamente in se, nasce nel 1920 col Monello. E nasce con un autore come Chaplin. Un uomo che nella vita, come forse ogni uomo poi in verità, è stato pieno di contraddizioni, ma che nel suo essere artista ha sempre narrato la fragilità dell’essere umano. Ecco possiamo dire che Chaplin è stato un regista di uomini. Non un regista tecnico, un uomo che viene ricordato come altri cineasti per un uso inedito o innovativo delle tecniche della macchina da presa, delle scenografie o della fotografia (badate bene, che alcuni dei suoi espedienti comici sono strettamente legati a questi elementi appena scritti e sono inscindibili da essi), ma un uomo che è e sarà sempre ricordato come un regista di Storie.
Stessa cosa, non è un caso, accade 10 anni dopo Il Monello, nel 1931 con il film nel quale Chaplin ha dato tutto se stesso: Luci della città. Di nuovo un vagabondo. Questa volta non un bambino solo che ha bisogno di protezione ma una ragazza cieca, una fioraia. Il vagabondo se ne innamora, compra un fiore da lei e decide di fare di tutto per aiutarla. Lei lo crede un milionario. Alla fine del film dopo mille peripezie del vagabondo, la ragazza riesce a curare la sua cecità e vede. Ma non ha mai visto il suo benefattore. Per tutta la durata del film lei pensa che sia un facoltoso uomo di città. Conosce solo al tatto le sue mani. Il sorriso del vagabondo quando alla fine la ragazza prende le sue mani, riconosce che è lui ma scopre che non è il ricco uomo che credeva. Non importa. La storia di due anime semplici. L’atto di vedere nel cinema e la metafora del sentire l’emozione nel cinema.
E nel mezzo alla trama tutto il Chaplin comico dei cortometraggi slapstick. L’incontro di box. Il milionario che lo tratta come un amico quando è ubriaco e come uno sconosciuto quando la mattina dopo torna sobrio. Luci della città mostra tutta la città. Tutta la vita che scorre, le grandi anime e le “persone basse” (come le definiva Dickens).
100 anni dal vagabondo e dal monello. 90 anni dal vagabondo nella città. E questo ci dice e ci da tutto. Ci da tutto Chaplin.
E ci invita a vedere e rivedere i film di Chaplin.
Schede dei due film.
Il monello
è uscito negli Stati Uniti il 16 gennaio 1921 (Premiere a Chicago) e in Italia il 26 novembre 1923.
E’ stato il primo lungometraggio di Chaplin. La lavorazione è durata 18 mesi (le riprese iniziarono nell’estate del 1919) in un momento non facile della vita del regista che perde il suo primogenito dopo tre giorni dalla nascita. Il suo matrimonio naufraga subito dopo.
Il film costa 250.000 dollari e ne incassa 9 volte tanto: 2 milioni e mezzo.
Luci della città
è uscito negli Stati Uniti il 30 gennaio 1931 e in Italia il 2 aprile 1931.
Alla premiere a Los Angeles, presso il Los Angeles Theater partecipo anche Albert Einstein che arrivò insieme al regista. Gli spettatori che li videro arrivare insieme si alzarono in piedi applaudendoli calorosamente. Sembra che in questa occasione Einstein abbia detto a Chaplin:
“Quello che ammiro di più della tua arte, è la tua universalità. Non dici una parola, eppure il mondo ti capisce!”
e che Chaplin abbia così risposto:
“Vero. Ma la tua gloria è ancora più grande! Il mondo intero ti ammira, anche se non capisce una parola di quello che dici”.
Anche se il sonoro era in pieno utilizzo già da 4 anni, Chaplin decise di girare comunque il film muto (questa sua scelta perdurò fino al 1940, quando Il grande dittatore divenne il suo primo film sonoro).
La scena in cui la fioraia cieca scambia il vagabondo per un milionario pare sia la più ripetuta della storia del cinema, con i suoi 342 ciak (non è un caso se il film costò 100.000 metri di pellicola e la lavorazione durò circa tre anni).
Stefano Chianucci
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