Se volessi dare una definizione al cinema di Alice Rohrwacher, questa regista e sceneggiatrice nata nella provincia di Firenze, a Fiesole, o comunque indicarlo con un paio di aggettivi, non nascondo che avrei difficoltà.
Non sarebbe assolutamente facile, perché in qualche modo mancherei di rispetto al suo cinema e al modo di fare cinema. Vi faccio un esempio. Se lo definissi “onirico”, avrei senz’altro ragione. Lazzaro felice (2018) è un film onirico. Così come anche Le meraviglie, lungometraggio del 2014. E non potrei negare che anche La chimera – film che alla settantaseiesima edizione del Festival di Cannes è stato particolarmente apprezzato da pubblico e critica – possa dirsi “onirico”.
Il cinema di Alice Rohrwacher è onirico?
Beh, irreale, immerso in un’atmosfera di sogno. Insomma, lontano dalla realtà. E questo è un problema, perché non si può negare che il cinema di Rohrwacher sia legato alla realtà, che parli dell’Italia, del presente, attraverso la lente distorta del sogno. Ma se usassimo un aggettivo come onirico, lo spettatore potrebbe pensare, giustamente, che il suo cinema sia slegato dal “qui ed ora” e che le metafore e i riferimenti all’oggi, che la regista si impegna a fare con imprescindibile sottigliezza, non siano che una casualità.
Che un film come Corpo celeste – il primissimo lungometraggio della cineasta – non parli a noi, cittadini del presente, del nostro presente e dell’epoca in cui viviamo. E sarebbe un errore. Quello che fa questa straordinaria regista, unica nel panorama nostrano e non solo, è raccontare il bello e il brutto dell’oggi, la miseria e la ricchezza, la cattiveria e la bontà, l’invisibile e il visibile, attraverso la lente del sogno. Attraverso il linguaggio metanarrativo del cinema.
La regia come magia, il regista come mago
Fa quello che Stendhal faceva con il romanzo. Passa una lente di ingrandimento sulle cose. Sulle persone, sulle emozioni, e a seconda di quello che vuole dire ingrandisce l’immagine o si allontana. Rende sfocata questa lente o la ripulisce. È come un bravo prestigiatore, la nostra Alice Rohrwacher, e riesce in pochi minuti a trasportare lo spettatore in un mondo altro, che richiama e non richiama il suo presente. È facile entrare in contraddizione, se si pensa ad un cinema come il suo. Eppure, se proprio volessimo trovare quel fantomatico aggettivo, quella definizione, allora mi verrebbe in mente di prendere spunto dall’ultima fatica della regista e definire il suo modo di fare cinema chimerico. Ebbene sì. Perché nel momento in cui hai afferrato, hai capito il senso profondo, il significato vero dei suoi film, ecco che ti sfugge, come Angelica con Orlando.
Credevi di poter risolvere il mistero e, invece, ti è sfuggito. Eppure tu, proprio come un cavaliere errante, non ti arrendi e prosegui la ricerca, capendo bene che, per quanto tu possa correre, il bello del cinema di Rohrwacher è che vi sarà sempre qualcosa di incomprensibile. Di ignoto. Ed è questo, a mio parere, a costituire il suo fascino e il suo segreto. Che sia sempre inafferrabile l’ultimo senso delle cose che intende esprimere. Perfino i suoi cortometraggi – tra i quali è impossibile non citare Le pupille, vincitore agli Oscar 2023 – celano un mistero profondo, chimerico appunto, che si cerca di inseguire ed inseguire, senza successo. È come se ci sfuggisse sempre qualcosa di risolutivo nel cinema di questo prodigio della cinepresa.
Sceneggiatura! Sceneggiatura! Sceneggiatura!
Prendiamo uno dei suoi film più caratteristici, e cioè Lazzaro Felice, e vediamo se riusciamo a spiegare il meccanismo che questa cineasta attiva nel cinema. La sua forza (spero sia evidente) non è nelle trame. È nel modo in cui sono scritti i personaggi e in quello che non dicono. Ebbene sì. Il nostro – parlo di quello Occidentale – è un cinema che si costruisce sui dialoghi. Su quello che si dice, più che su quello che non si dice. Siamo cresciuti, infatti, nel segno di Hitchcock, che sosteneva fermamente: “Sceneggiatura! Sceneggiatura! Sceneggiatura!”.
E se ci pensate, anche quello italiano è un cinema di parola. Prendiamo Nanni Moretti, Paolo Virzì. Pensiamo a Fellini, a Visconti, ma… ma un momento! Davvero il cinema di Fellini e di Visconti è di parola? Anche De Sica o Scola davvero danno importanza alla parola? Beh, no. Il loro è un cinema in cui si tenta di comunicare e non si riesce. Lo stesso Antonioni ha fatto dire a Monica Vitti una frase perfetta, che ci può aiutare a capire meglio il nostro cinema e finanche quello della nostra Alice, cui stiamo cercando disperatamente di trovare l’aggettivo giusto, una classificazione accettabile, in questa nostra smania di etichettare e mettere in ordine. Ne L’eclisse, Monica Vitti dice che finché ha amato una certa vecchia fiamma “ci si capiva. Non c’era niente capire” e ognuno di noi sa che significa, sa che intende. Ma tutto quello che percepiamo non è stato detto. Lo ricaviamo da soli.
Un cinema per guardare con incanto il mondo
Alice Rohrwacher, da abile sceneggiatrice qual è, fa dire ai suoi personaggi qualcosa e quel qualcosa rimanda ad altro di più profondo. In Lazzaro felice ci sono pochissimi dialoghi, se notate bene (e non solo in Lazzaro felice) e la parola, quando c’è, non dice. La parola svia. E in questo rientra perfettamente nella tradizione del cinema italiano. In quel dire qualcosa per dire altro. In quell’ellisse su cui si basa quasi tutto il nostro cinema. Sul mistero del silenzio e del non detto.
E questa cineasta toscana è come il suo Lazzaro. Usa il cinema per guardare con incanto il mondo. Per cercare di scoprirlo, di capirlo, senza mai carpirne il mistero. Perché nel momento in cui sta per avvicinarsi, torna indietro. E lo stesso fa fare a noi. Ci fa avvicinare. Ci fa quasi scoprire il segreto del suo cinema, del suo universo e di quello che abbiamo attorno, ma all’ultimo spegne la luce. Interrompe il film e ci fa rimanere così. Spaesati, immobili, immersi nel sogno. E il cinema, quale opera d’arte, diviene metafora con cui impariamo a guardare il presente. Senza mai smettere di incantarci. Senza mai riuscire a sondarne il mistero.
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