The 8 Show Recensione
The 8 Show – la serie coreana su Netflix, tratta dai webtoon Money Game e Pie Game di Bae Jin-soo – pensava di eguagliare Squid Game, raccontando qualcosa di simile, ma non c’è riuscita. Ha toppato su aspetti significativi, pur rivelandosi tutto sommato piacevole.
E adesso parliamo di The 8 Show. Confesso che l’ho divorato. L’avrò finito in appena due giorni, perché, ahimè, il giorno dopo avrei dovuto lavorare, essere vigile e far fronte a tutti quegli inconvenienti della vita adulta. Eppure, non facevo altro che pensarci e chiedermi come sarebbe andata a finire, che ne sarebbe stato dei personaggi, chi c’era dietro a tutto. Riflettevo anche su quello che la serie intendeva trasmettermi e su quanto i coreani (e direi anche i giapponesi) riescano a descrivere perfettamente i lati più malati della società di oggi e lo facciano proprio con il survival show, la versione moderna di quello che un tempo erano i giochi dei gladiatori, per esempio. Se ci pensate, parliamo sempre di persone prive di libertà, costrette a combattere tra di loro, finanche a scontrarsi con bestie feroci, solo per ottenere la grazia dall’imperatore.
Ave Cesare, morituri te salutant!
Sopravvivere era praticamente impossibile e tutti avevano solo da perdere. Ma erano incagliati in quel gioco malato e potevano unicamente andare avanti. Solo il più forte e il più intelligente avrebbe avuto la meglio, perché ogni prova, all’interno dei vari anfiteatri, non si basava sulla mera forza fisica, ma anche sulla strategia, sullo studio attento dell’avversario. I romani (termine generico con cui indico gli abitanti dell’Impero Romano) ci andavano matti. Erano in grado di dimenticarsi di mangiare se ad aspettarli c’era lo spettacolo dei gladiatori. E, ovviamente, gli imperatori ne approfittavano per distrarre le masse e tenerle buone. Circolavano soldi per le scommesse e non si parlava d’altro sia nel foro, sia nelle taverne. Era uno spettacolo immancabile, che toglieva il fiato.
Tutto per i soldi, tutto per il successo
Quando si tratta di questo tipo di competizioni, anche se così tanto cruente e crudeli, vi è qualcosa che scatta nell’animo umano e non si riesce a pensare ad altro. Si cerca una giustificazione al perché uno vinca a scapito di un altro e, a ben vedere, non è tanto diverso da quegli show, in cui c’è un solo vincitore. Quello più versatile, più intelligente, più capace. Il più meritevole. Eppure, in The 8 Show non c’è un vincitore, non c’è un unico sopravvissuto. Vincono tutti, in un certo senso, perché hanno dato agli spettatori quello che volevano: dramma, show, divertimento e, ancora meglio, intrattenimento. E in questo vi è una satira ben precisa, una critica feroce al sistema televisivo, ai reality, che vogliono speculare sulla vita di persone che sono spesso disperate. Chi partecipa fa di tutto per compiacere chi guarda e per guadagnare. I soldi sono tutto per i concorrenti. Migliorano lo status sociale, garantiscono una vita migliore e la riconoscenza sociale.
Carenze tecniche e di trama
E per dimostrare questo e un altro paio di cose (la profonda differenza di classe, il privilegio di alcuni a discapito di molti, l’inganno del self made man e dell’american dream, modello fittizio esportato all’estero e intimamente legato alla società capitalistica) chi ha pensato e ideato la serie si è dimenticato di curare aspetti ancora più importanti, che hanno influito negativamente sulla stessa. I personaggi, per esempio, non cambiano, non crescono, sono privi di approfondimento psicologico. Sono figure cartonate, monolitiche, fantocci disegnati a grandi linee. Sono gli stessi dall’inizio alla fine. Chi appare crudele resta crudele. Chi è buono resta buono. Senza che nulla cambi, senza che lo spettatore venga in alcun modo sorpreso.
La trama stessa, dopo le prime puntate, non cambia. Si dicono sempre le stesse cose, si mostra il peggio dell’umano, le criticità della società e così via, e queste stesse cose si ripetono in sequenza, a ripetizione, come se non ci fossero più idee da sviluppare. La sceneggiatura si fa ripetitiva e piena di frasi retoriche. E gli stessi richiami al cinema d’autore, di cui la serie è pregna, sembrano furbi escamotage per riempire dei vistosi buchi di trama. Si vede che si è fatta un po’ di fatica nel trovare un finale, come se dopo aver fatto questa critica alla società consumistica, al sistema meritocratico, all’immobilità di classe, non si sapesse più che altro fare, che altro dire. Non capisco davvero come si possa dire che sia meglio di Squid Game o di altre serie/ film coreani o giapponesi sullo stesso tema (ne ho parlato in un paio di articoli. Se vi va, potete recuperarli qui e qui).
Molti difetti e qualche pregio
Naturalmente, ha la serie ha anche dei pregi. Mi è piaciuto il modo in cui è stata resa la disumanizzazione dei personaggi che in questo tipo di show, come nella vita, sono ridotti a numeri; la critica ai reality e al capitalismo, che è a vantaggio solo di chi è ricco e si trova in cima, e che mette in giro la falsa credenza che tutti possiamo avere successo, cogliendo le regole del gioco e impegnandoci con ogni forza. Così se non ce la facciamo (assai probabile) non è colpa del sistema ma nostra, perché non ci siamo impegnati abbastanza o perché non siamo sufficientemente bravi. Il tutto viene trasmesso con tinte color pastello e bellissime scenografie, sul modello delle pubblicità, che rendono patinati e irresistibili quei prodotti che le multinazionali ci vendono a profusione.
Tutto finto, naturalmente. Come tutto quello che gli 8 protagonisti troveranno in questa grande stanza in cui sono capitati. Che poi chissà perché proprio loro, chissà chi ha organizzato tutto e tanti chissà, che resteranno solo chissà. Spero che vi sia una seconda stagione almeno per capire qualcosa in più.
Vi consiglio di vedere The 8 Show su Netflix senza grandi aspettative. Poi, potreste trovarlo più bello di Squid Game, ma per gusti personali. Non perché lo sia davvero.
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