Dahmer, le conversazioni con i serial killer – Speciale sull’empatia negativa

Da pochissimo è stato rivelato che Netflix non si fermerà alla serie Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, ma proseguirà con altre stagioni dedicate ad altri serial killer. La notizia ha diviso il pubblico, portando a galla un’unica grande domanda: se Dahmer è una delle serie più viste sulla nota piattaforma, quanto è etico proseguire, considerando che questi serial killer – nonostante le intenzioni della produzione – vengono comunque mitizzati?

Etico, ebbene sì. Ogni tanto è bene fare delle considerazioni anche su questo aspetto e non possiamo esprimere compiutamente un giudizio senza avere tutte le informazioni possibili. Inizio col dire che l’idea di Netflix a me come spettatrice non dispiace, perché mi consente di entrare, per quanto possibile, nella mente di un essere umano (spregevole, certo, ma pur sempre un essere umano) e di cercare di capire che succede. Cosa può spingere qualcuno ad uccidere non una, non due, ma una serie di volte? E soprattutto che ruolo ha la società e in che modo previene (e provoca) tali incresciosi eventi?

Netflix, attraverso una serie come Dahmer, cerca di rispondere a queste domande e, in più, ci fa sentire questi assassini seriali direttamente dalla loro viva voce (come direbbero i latini) attraverso i Tapes, tradotti in italiano con il titolo efficace di Conversazioni con un killer. La serie true crime e tali miniserie sottoforma di documentario sono strumenti fondamentali per lo spettatore, sia perché mostrano quanto talvolta questi oscuri figuri siano normali, abbiano insomma caratteristiche comuni, che consentono loro di confondersi abilmente tra la folla, di sparire nella massa. Sia perché sfatano il mito del serial killer genio, dato che questa tipologia di assassino molto spesso commette degli omicidi senza preoccuparsi troppo dei dettagli, nell’assurda convinzione che in qualche modo se la caverà. Così avviene per Joffrey Dahmer con l’aria del bravo ragazzo bianco e omosessuale (e l’imbarazzo di tale informazione avrebbe spinto i poliziotti a non fargli troppe domande) e, così, anche per John Gacy, che faceva sparire i ragazzi che lavoravano per lui senza preoccuparsi di destare sospetti.

C’è un film che ricama molto sulla mancanza di intelligenza del serial killer ed è The house that Jack built di Lars Von Trier, nonché sulla loro scarsa attenzione al dettaglio. Eppure, pare che i bianchi, nell’America degli anni ’70, potessero fare davvero qualunque cosa senza essere disturbati. Bastava scegliere delle vittime di cui non importava niente a nessuno e, con tali premesse, di certo non occorreva un grand’uso della materia grigia. Eppure, quello che preoccupa una parte del pubblico un po’ più lucida – e non a torto – è quella simpatia, quell’interesse morboso che si prova per i serial killer. Quella tendenza a trovare una scusante ai loro gesti spregevoli, ricercando nel passato e nel periodo dell’infanzia qualche violenza, privazione, sofferenza che possa in tal maniera giustificare gesti tanto efferati, quei corpi ammassati e sepolti sotto casa, torturati e violati, soggetti a vessazioni e sevizie oltre ogni immaginazione. E questa, lettore mio, si chiama empatia negativa e proprio quest’anno la Bompiani ha edito un libro di Stefano Ercolino e di Massimo Fusillo che spiega i meccanismi di questa particolarità tutta umana, mettendo in luce il grande fascino che proviamo per il villan letterario e cinematografico.

Non è facile impedire a chi guarda una serie come Dahmer di non farsi domande del tipo “e se avesse vissuto in una famiglia diversa?”, “e se non fosse stato abbandonato a se stesso” ed altri interrogativi che portano inevitabilmente all’empatia, ad un commosso dispiacere nei confronti di un assassino. Meccanismo, questo, che non si verifica quando vediamo un telegiornale, perché i giornalisti tenteranno di dire il meno possibile sulla vita dell’assassino, spostando l’attenzione sulla vittima o sulle vittime. Eppure, nonostante questo, nel caso di una serie così è quasi inevitabile che si simpatizzi, perché allo spettatore sono forniti molti dettagli sulla vita che ci portano a provare pietà, seppur lo scopo sarebbe quello di far provare una crescente antipatia. Ma al di là di questo appunto, i due studiosi spiegano inizialmente che l’empatia positiva è una forma di compassione senza limiti che un dato essere umano prova nei confronti di un altro, dal momento che ne condivide la sofferenza. Se in tal caso non trova ostacoli, chi invece prova l’empatia negativa vive un’ambiguità: da una parte è inorridito dai comportamenti del personaggio/persona, ma dall’altra sente un fortissimo affetto nei suoi riguardi. Questo muro che ci impedisce di provare empatia nella sua completezza  è di natura etica e morale. Eppure, comunque proviamo compassione, ci emozioniamo pur sapendo che non è la cosa giusta da fare.

Se la serie è percepita come pericolosa – e a questo punto dovremmo spaventarci di molte storie tratte da storie vere – è per questo meccanismo di simpatia tra spettatore e serial killer. Evitare che si presenti è particolarmente difficile. Fa parte della nostra natura umana ed è uno dei tanti affascinanti comportamenti che interessano l’uomo e che guidano le sue azioni. Quindi, è etico proseguire con altri serial killer, con altri ritratti di mostri? Sì, purché passi un altro tipo di messaggio agli spettatori, ogni volta che seguono le conversazioni con i serial killer o una serie come Dahmer: tutto poteva evitarsi, in quell’America degli anni ’70. Se solo la polizia fosse stata più sollecita, meno superficiale, se solo si fosse vissuti in una società più giusta, magari sarebbe andata decisamente meglio. Se una tragedia avviene, insomma, è perché la società lo permette. Un po’ come per i crimini del Circeo.

Pensate che dei ragazzi avrebbero mai rapito e seviziato delle ragazze se la società non li avesse resi intoccabili solo perché maschi e abbienti? Chissà, magari no. E, così, credete che Ted Bounty, Joffrey Dahmer o John Gacy avrebbero potuto mietere tante vittime se non fossero stati maschi, bianchi e carismatici in quell’America omofoba, razzista e misogina? E quante cose, oggi, potrebbero non avvenire se la società fosse in grado di contrastare tutto un sistema? Beh, forse, non avremmo una giornata contro la violenza sulle donne. Queste serie sono occasioni per studiare un omicida e il contesto nel quale agisce.

E non dimentichiamo, d’altra parte, che al di là di tutti questi discorsi filosofici, una piattaforma come Netflix deve pure campare. E in quanti vedranno queste nuove stagioni? In molti, in molti, fidati di me. Senza denaro non gira il mondo, mio caro lettore.

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Nasce nella provincia barese in quel del '94 con l'assoluta certezza di essere Batman. È in grado di vedere sette film al giorno e di finirsi una serie tv in tempi sovrumani. Peccato che abbia anche una vita sociale, altrimenti adesso sarebbe nel Guinness dei primati...