La Casa di Carta Corea – Recensione Serie TV – Netflix
Parliamo de La casa di carta, ma non dell’originale spagnolo (anche se inevitabilmente dovrò pur fare qualche riferimento), ma della sua versione made in Corea. Ne parliamo come se fossimo davanti ad una bottiglia di Soju, la bevanda tipica che si intravede nell’ultimo episodio del remake, e facciamoci qualche domanda: era necessario? Ha aggiunto qualcosa di più all’originale? Dovrebbero tutti vederlo?
Questa recensione, seppur prontissima nella mia testa, ho atteso un pochino a scriverla perché volevo verificare se La casa di carta Corea avrebbe avuto il solito successo cui ormai ci siamo abituati quando si tratta di serie coreane. Ovviamente questo non è avvenuto, sia perché mancava di originalità (sì, anche un remake deve esserlo), sia perché hanno puntato su una serie troppo famosa e di successo e a quel pubblico che aveva già avuto modo di vederla e apprezzarla. Non ci sono formule precise in questo mercato (o forse sì?), ma è un errore fare affidamento su quel pubblico, perché non vorrà vedere qualcosa che ha adorato per timore che gliel’abbiano rovinato. Un sentimento umano. Avendo visto entrambi posso dire che la Corea, a parte qualche stratagemma intelligente e qualche cambiamento necessario, se la cava decisamente meglio con prodotti originali.
La Casa di Carta Corea – Recensione – L’originalità ripaga sempre
Quando è uscito Squid Game, quello che ha colpito maggiormente i fan era l’originalità, l’unicità di quello che vedevano. Certamente c’erano cose già viste, specie per chi è abituato a vedere cinema e serie coreane (e film giapponesi), ma un pubblico occidentale a digiuno di prodotti della Corea del Sud ha visto la serie e non è riuscita a trovarne un corrispettivo. Semplicemente perché non c’è. Non c’è nulla del genere qui, dalle nostre parti filostatunitensi. Forse Hunger Games e qualche cosetta sparsa, per esempio Escape Room, ma in fondo nulla di paragonabile. Il successo di questo neo-cinema deriva in gran parte proprio da tale unicità dell’offerta. La casa di carta Corea è interessante nei momenti in cui si differenzia e prende le distanze dall’originale, facendo riferimenti che solo chi abbia visto La casa de papel coglierebbe. Mi riferisco ad una scena (mini spoiler) in cui il corrispettivo di Monica ha una relazione con il corrispettivo coreano di Arturito e fingono di avere un figlio per ottenere dei vantaggi. Poi, si viene a scoprire che è tutta una menzogna.
Eppure perché lei non è davvero incinta? Perché nell’originale, la nostra cara Monica intendeva abortire, ma Denver le fa un discorso contro l’aborto che è stato parecchio criticato. Netflix, che ha pagato per questo remake, non ha ricommesso lo stesso errore e, di conseguenza, niente gravidanza e nessun aborto. Questo è un esempio, ma ve ne sono molti altri nella stessa evoluzione della storia e nella caratterizzazione dei personaggi che lasciano intendere che stavolta il regista e Netflix abbiano volutamente evitato di passare per misogini e approssimativi su discorsi cui la piattaforma e la Spagna tengono molto. E infatti, si nota dalla caratterizzazione di Tokyo e Nairobi, ma soprattutto nel personaggio di Yunjin Kim (nel ruolo di Raquel), nel suo rapporto con i membri della polizia, con il professore e con la famiglia. Un personaggio che ha avuto (finalmente) giustizia, insieme a tanti altri grazie ad un cast straordinario e ad una sceneggiatura a volte davvero notevole e altre affatto all’altezza. Insomma, ogni qualvolta la serie si è distanziata dall’orinale ha conseguito dei bei risultati, se non fosse che a volte, pur di sorprendere lo spettatore, ricorrevano ad espedienti molto poco credibili. Circostanza, per esempio, che si è già presentata nella serie Non siamo più vivi, seppur con profonde differenze.
La politica: una reale critica al capitalismo
Arriviamo ai significati politici della serie e agli aspetti più interessanti, quelli che danno un valore e una ragion d’essere a questa serie. Come i più sanno, il furto alla zecca di stato è un attacco al sistema capitalistico e, seppure non sia stato sviluppato come si deve, la banda spagnola voleva dare una lezione di comunismo. Sulla superficialità e la mancanza di senso de La casa de papel vi sarebbe da discutere per ore, e non è il mio obiettivo, che è invece dimostrare che nella serie coreana vi sono forti motivazioni, vi è una denuncia seria al sistema capitalistico e da parte delle vittime di tale sistema. Vittime reali, come il personaggio di Tokyo che è giunto in Corea del Sud con la promessa della libertà e di un buon lavoro, sicurezza e il desiderio di ricominciare. E, invece, come tanti emigrati ha trovato lavori mal pagati, delinquenza, soprusi e un invito ad abbracciare la via della delinquenza.
Non è la prima volta che le serie tv coreane e i film denuncino il sistema sud coreano, le classi sociali, i debiti che contraggono i poveri per permettersi beni di di consumo che i ricchi comprano assai facilmente. La disillusione di chi vuole avanzare di classe e si trova catapultato indietro, quasi vi fosse una cortina di ferro ad impedire l’avanzamento di classe. Che sia al cinema o in letteratura, i coreani riflettono costantemente su tali delicatissime questioni, riuscendo con le loro sole forze ad imporsi in un mercato che era esclusivamente appannaggio degli Usa. Anzi, in un momento in cui le Major tentano di arrivare in Cina (Ahi, serva America!), la Corea del Sud propone un cinema contro la Cina, il Giappone (ricordato spesso come invasore) e la Corea del Nord, che critica il Capitalismo e le facilonerie occidentali, e noi, spettatori occidentali e occidentalizzati, accogliamo nelle nostre menti la freschezza di tale attacco. Un cinema che è destinato da anni a fare breccia e a farsi strada, e che ha visto in Netflix un modo per avanzare. Questione di tempo, amici e amiche. La casa di carta Corea, or dunque, riflette lo scontro tra comunismo e capitalismo, tra ideale e realtà, post unione delle due Coree. Un modo straordinario per sottintendere che non è oro tutto ciò che luccica. A questo punto, concludo parlando della maschera.
La Casa di Carta Corea – Recensione – La maschera dello Yangban
Se gli spagnoli usavano il volto di Salvador Dalì senza un reale significato, indice della superficialità di questo prodotto, nel remake coreano i ladri indossano una maschera che rappresenta gli Yangban, una classe sociale coreana che è esistita per 600 anni. Letteralmente significa “due classi”, perché riuniva i funzionari civili e i militari. Gli Yangban erano assai importanti perché avevano lo scopo di preservare la cultura tradizionale, specialmente la letteratura e l’arte. Eppure, nel teatro coreano e nelle danze in maschera (che non hanno nulla da invidiare al ben più famoso teatro giapponese) lo Yangban è un simbolo di grande importanza sociale, perché metafora di ribellione, di rivalsa e di denuncia nei confronti dei soprusi della classe nobiliare. Ecco perché i personaggi di questa serie indossano proprio questa maschera: è un modo per dire “noi ci ribelliamo”. Siamo stanchi di essere il capro espiatorio e di essere al servizio del vostro conio, di essere burattini nelle mani di politicanti scorretti, capitalisti insensibili che ci sfruttano e ci rinchiudono in prigione. Stanchi di essere gli ultimi, i dimenticati, dei Jean Valjean. Ed è giunto il momento che la nostra voce venga udita. E questo indomito grido di battaglia, questo guanto di sfida scagliato contro il sistema (forse) vale da solo l’intera visione.
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