Nostalgia – Recensione – Mario Martone

Nostalgia – Recensione

Tra le tre co-produzioni italiane in concorso al Festival di Cannes troviamo Nostalgia di Mario Martone, un viaggio intimo e commosso di riscoperta delle proprie radici, profondamente radicate all’interno di un luogo-simbolo, la Napoli che ha dato i natali al regista.

Per un pubblico attento al contesto cinematografico italiano il nome di Mario Martone non è affatto una novità, basti pensare all’ottima accoglienza ottenuta dalla sua ultima opera, Qui rido io (2021), presentata in concorso alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Ma il film con cui Nostalgia sembra entrare particolarmente in comunicazione, all’interno dell’opera del regista, è L’amore molesto (1995), tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante. Il fil rouge che lega le due pellicole è il tema del ritorno a casa, a Napoli, e la riscoperta di un mondo volutamente sotterrato e legato a ricordi dolorosi. Ma se in L’amore molesto tutto ciò assumeva i toni torbidi e sospesi del thriller, in Nostalgia si tratta di un viaggio catartico, volto alla pace con se stessi e con il proprio passato, e alla riconciliazione con il luogo di nascita, forzosamente abbandonato ma ancora vivo nei ricordi e nel cuore del protagonista.

Felice, interpretato da un Pierfrancesco Favino ormai da anni all’apice della sua carriera, è un uomo di mezza età che, dopo aver abbandonato Napoli a seguito di un evento traumatico all’età di quindici anni, ha trascorso gli ultimi quaranta anni nel continente africano. Il punto di partenza del film è proprio il ritorno a casa del protagonista e la riscoperta dei luoghi e delle persone della propria infanzia. Un percorso nostalgico, contemplativo, in cui Napoli prende vita, viene inquadrata nei suoi scorci più intimi e carichi di significato, selezionati con cura da un Martone che si dimostra perfettamente in sintonia con l’ambiente circostante, tra architetture e volti del posto, inquadrandoli con dolcezza, con insistenza e con un coinvolgimento evidente. Se la Napoli di L’amore molesto era un territorio ostile, rumoroso, caotico e carico di elementi perturbanti, qua la città assume delle parvenze differenti, il silenzio e la lentezza sono predominanti. Mentre Anna Bonaiuto, nel film tratto dal romanzo della Ferrante, correva spasmodicamente e per nulla inosservata nelle strade della città partenopea indossando un abito rosso, Felice passeggia lievemente confondendosi con ciò che lo circonda, ritrovando scorci del proprio passato in immagini, suoni e atmosfere.

Nonostante la Napoli rappresentata, trasfigurata dalla nostalgia e dalla ricomposizione emotiva del protagonista, sembri un luogo pacifico e ideale, le contraddizioni e i campanelli d’allarme emergono, seppur sottovalutati e, in parte volutamente, sotterrati. Si tratta di un contesto che, come evidenziato dal personaggio di Don Luigi, pullula di sottosviluppo, disagio, criminalità e in cui vige la legge del più forte, della sopraffazione. Il confronto tra le due realtà, quella ideale e quella concreta, si consuma nel rapporto tra Felice e Oreste, suo migliore amico d’adolescenza, ora capo della criminalità organizzata del quartiere. Felice è un uomo realizzato, nel lavoro così come nella vita privata, convinto di poter trapiantare nuovamente le sue radici nel territorio napoletano ricucendo in maniera indolore tutti gli strappi del suo passato; Oreste è un boss misero, circondato dal nulla, dalla solitudine, che detiene un potere in fin dei conti privo di alcuna concreta influenza in larga scala. Ma ciò che porta Oreste in una condizione di predominanza, fino al tragico ed inaspettato finale, è la sua presa con la realtà, con la concretezza delle cose, laddove Felice sostituisce il reale con una proiezione idilliaca di esso.

Pierfrancesco Favino restituisce i contrasti discussi attraverso la grandezza della sua performance, per la quale avrebbe sicuramente meritato il Prix d’interprétation masculine, che già gli era stato sottratto nel 2019 dal superlativo Antonio Banderas di Dolor y gloria, nonostante la sublime interpretazione da parte di Favino di Tommaso Buscetta ne Il traditore (2019). Proprio come nel film di Bellocchio, la trasformazione di Pierfrancesco Favino nel personaggio di Felice parte da un atto linguistico: stupisce sì la naturalezza con cui l’attore pronuncia delle frasi in arabo, ma ancor di più il suo italiano incerto, claudicante, contaminato nell’accento da quarant’anni all’estero. Un linguaggio dinamico, che scandisce la ritrovata confidenza di Felice con il territorio d’appartenenza, quando ritorna a parlare con accento e dialetto del posto. All’evidente grandezza del cast si unisce l’adeguatezza dell’ambiente circostante, con comparse e personaggi secondari che possiedono i volti giusti, estrapolati da stralci di vita vera, catturati in momenti in cui sono vestiti, parlano e si comportano con spontaneità e non attraverso una ricostruzione imbarazzante e macchiettistica di un’immaginario radicato nel sentire comune.

Nonostante il film nell’ultimo quarto della sua durata allenti leggermente la presa, fino all’amaro ed inconciliante finale, la lentezza del ritmo della narrazione non rappresenta affatto un difetto, perché entra perfettamente in dialogo con la componente tematica del film, con la riscoperta del passato, con la nostalgia, con la contemplazione stupita. La prima ora, nella quale non vi sono evidenti o concreti stravolgimenti di trama, è caratterizzata dal dolce rapporto tra il protagonista e la madre, anche lei volto caratterizzante di un certo tipo di meridionalità, che si riassume nella toccante scena del bagno, con l’inversione dei ruoli tra genitore e figlio. I flashback sono scanditi da una variazione nel formato dell’immagine e da un filtro fotografico, facendo l’eco alle riprese nel vecchio formato in Super8, un momento in cui il passato diventa immagine audiovisiva del proprio ricordo, da rivedere, ripercorrere, trattare con cura, quindi anche restaurare. Colpiscono le musiche del film, per niente banali e complici nella creazione di un’atmosfera del tutto particolare insieme alla stupenda fotografia di Paolo Carnera e alla pacata ed elegante regia di Mario Martone.

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Per un breve approfondimento su L’amore molesto (Mario Martone, 1995), film citato nell’articolo, visita questo post su Instagram!

Classe '01, palermitano dislocato a Bologna, di giorno è uno studente del DAMS, di notte si trasforma in un imperscrutabile accumulatore di materiale nerd: dvd e blu-ray di film e serie tv, libri e fumetti (esclusivamente Dylan Dog e Diabolik). Cinefilo patriota, mette il cinema nostrano davanti a tutto: consigliategli un film di genere italiano anni '70/'80 (preferibilmente horror, preferibilmente Fulci) e sarà vostro. Tra i suoi registi preferiti si denotano anche Brian De Palma, Clint Eastwood, Quentin Tarantino, Dario Argento, Carlo Verdone e David Cronenberg.
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