È stata la mano di Dio (2021) – SPECIALE – Una riflessione sul film di Paolo Sorrentino

È stata la mano di Dio – Speciale

Parliamo di È stata la mano di Dio, il nuovo film di Paolo Sorrentino. Così, un po’ a distanza dalla sua uscita al cinema e dal suo inserimento sulla piattaforma di Netflix.

Ne parliamo dopo una serie di riflessioni, recensioni, interviste fatte al regista e agli attori, ed anche parecchio dopo le suggestioni e le emozioni a caldo, che si provano subito dopo la visione di un film, qualunque esso sia, e a prescindere dal luogo deputato alla sua visione. Naturalmente, qualcosa muta quando si è nella sala cinematografica, perché – che si vada soli o in compagnia – si risente di quelle emozioni vibranti che emana ogni spettatore. Si ascoltano le risate e, in alcuni casi assai più inerenti a questo, le lacrime di chi è a pochi posti di distanza. Si vive un’esperienza collettiva, unica e irripetibile. Come quando si è a teatro si percepisce l’altro e ci si nutre della stessa visione, seppur con emozioni che possono essere molto diverse.

La fortuna che ha un film (o un’opera d’arte qualunque) è che se ne può sempre parlare, anche perché nel caso del film di Sorrentino si è di fronte ad una caso che è più letterario che cinematografico. O almeno questo mi è capitato personalmente di rilevare più nella letteratura che nel cinema (e questo senz’altro deriva dalla mia formazione che è innanzitutto letteraria). Sorrentino, insomma, fa un’operazione di cui parla Leonardo Sciascia nel libro La scomparsa di Majorana. Qui, afferma che ci sono scrittori che potrebbero scrivere in gioventù, o comunque all’inizio della loro carriera, i loro capolavori, le opere per cui vengono ricordati. Eppure, per delle ragioni sempre diverse, e in alcuni casi non sempre univoche, decidono di ritardare la loro opera, rimandarla ad un’età più matura, perfino alla vecchiaia.

Una delle scene iniziali del film

Posticipano quella che potrebbero scrivere di primo impatto e ricercano forme e modi per scriverla meglio. Attendono quella maturità stilistica e umana, per poter finalmente dare vita a qualcosa di particolarmente importante. Non si può affermare in maniera univoca che questo sia il capolavoro di Sorrentino, ma si può ritenere che sia la sua opera più importante, la spiegazione dei tanti simboli di cui è disseminato il suo cinema, un punto di partenza in un punto di arrivo. Perfino ogni più piccola scena di vita, cui si guardava con mistero, viene spiegata. E finalmente alla tecnica che ha straordinariamente dimostrato in tutti questi anni corrisponde una forza emozionale ed espressiva, un valore umano reale da sempre presente nel suo cinema, ma che si confondeva con il desiderio di epicità, che piace tanto all’America.

In questo film, il regista riprende i primi preziosi film, realizza un’opera che dapprima è corale e poi finalizzata alla rappresentazione della solitudine e del dolore del suo protagonista. La seconda parte ha un tono del tutto diverso, assai più malinconico e posato, antitetico al brio della prima parte, in contrasto con i suoi colori e con la luce delle sue scene, per lo più diurne e sempre colme di vita. Nella seconda parte, il protagonista (e non è un mistero ricordare che dietro di lui si celi il nostro regista, romano di adozione) percorre le vuote strade di Napoli, alla ricerca di un antidoto al dolore e riscopre nel cinema il farmaco alla sua esistenza spezzata. Come nei versi danteschi – che sono un po’ una litania funebre, un po’ il suo modo di rapportarsi col mondo e spiegarlo – Fabietto scende nelle viscere del suo dolore, nella sua città dolente, alla ricerca di una strada, di una bussola che guidi il suo prossimo sentiero.

Una delle scene finali e più iconiche del film

Sorrentino torna a Napoli, lì dove è stato felice, una città che oramai non ha più niente da dargli, diversamente da Roma. Ma questo viaggio al contrario che fa, vibra di possibilità. La possibilità che il regista faccia pace con le sue origini e torni a riaccordarsi con quello che era. Che, insomma, non si disunisca più, che non dimentichi chi sia stato, nonostante il grande dolore che possa provare. E il suo film, che si prospetta come un meraviglioso viaggio anche nel nostro dolore, non è solo un dono grandissimo che il regista ha fatto ai suoi figli, ma anche a noi, spettatori di ogni età.

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Nasce nella provincia barese in quel del '94 con l'assoluta certezza di essere Batman. È in grado di vedere sette film al giorno e di finirsi una serie tv in tempi sovrumani. Peccato che abbia anche una vita sociale, altrimenti adesso sarebbe nel Guinness dei primati...