Madres paralelas – Recensione – Pedro Almodóvar
Dopo Dolor y gloria, autoanalisi dolorosa e crepuscolare di un Pedro Almodóvar sulla soglia dei settanta anni, era prevedibile pronosticare una battuta d’arresto nella filmografia del regista spagnolo.
La sua precedente impresa, presentata in concorso alla 72ª edizione del Festival di Cannes (l’annata di Parasite, C’era una volta a… Hollywood, Ritratto della giovane in fiamme), è stata acclamata all’unisono da pubblico e critica ed ha ricevuto la dovuta attenzione durante la stagione dei premi. Ad oggi non si può non ricordare il penultimo lungometraggio di Almodóvar come una delle pietre miliari della sua filmografia, probabilmente il suo più grande capolavoro insieme a quel Tutto su mia madre che nel 2000 gli valse l’Oscar al miglior film straniero. Nonostante gli ingenerosi presupposti, Madres paralelas è riusciuto a trovare una sua identità, prefigurandosi come un compromesso tra riproposizione e variazione di tematiche più care al cinema di Almodóvar e un proseguimento del percorso iniziato due anni prima con la pellicola che valse ad Antonio Banderas il Prix d’interprétation masculine in quel di Cannes.
Tra memoria, individualità e politica
Tramite il personaggio di Janis (Penélope Cruz), impegnata nella riesumazione del bisnonno, desaparecido della guerra civile spagnola, Pedro Almodóvar sembra voler scavare nelle proprie origini che, in un’accezione più politica e sociale, sono le origini di un’intera comunità. Nella frenesia della contemporaneità è tangibile la necessità di arrestare il vorticoso processo, fatto più di casualità che di causalità, della propria vita per una riflessione più profonda, ancestrale, per guardarsi indietro e riscoprirsi. Questa tematica sembra agire sottotraccia per quasi l’intera durata del racconto fino all’esplosione, nel finale, con l’effettiva riesumazione degli scheletri dei trisavoli in presenza dei protagonisti della vicenda, che sono oggetto, nell’ultima struggente inquadratura, di un gioco di sostituzione in cui prendono il posto dei loro antenati nelle fosse appena scavate. Un’immagine dirompente e fortemente simbolica, con la quale il regista crea un legame a filo doppio tra il presente e il passato, affermando come sia impossibile pensare di poter guardare al presente senza conoscere il prima di noi, in un’accezione sia individualistica e umanitaria, sia d’impegno politico. Almodóvar si discosta dalla disillusa e malinconica introspezione di Dolor y gloria, fa un passo avanti e ritrova la speranza attraverso un viaggio nel tempo metafisico.
Maternità e paternità artistica
Quella ritrovata è una speranza per il presente e, soprattutto, per il futuro, evidente nel tema cardine di Madres paralelas: la maternità. Janis è una donna alla soglia dei quarant’anni che, nonostante una gravidanza indesiderata (ventidue anni dopo il tragico epilogo del personaggio di Rosa, interpretato dalla stessa Penélope Cruz, in Tutto su mia madre) accoglie con amore il dono di una figlia, consapevole dell’importanza dell’opportunità concessale dal fato, una delle ultime per via della sua età. Si tratta della possibilità di poter prolungare il proprio percorso anche oltre i limiti della morte, di lasciare una traccia di sé nel mondo, di continuare a vivere in un’altra persona: è proprio qui che il tormento del pensiero della morte si tramuta in sollievo. In senso lato, per un Almodóvar che non ha avuto l’occasione di mettere al mondo prole, il discorso si riconfigura in una riflessione sull’arte e sulla paternità delle proprie opere che, come dei figli, vengono accudite e accompagnate in un percorso di creazione e crescita che finisce con il rilascio di esse. Il limite dell’arte è l’eternità, l’arte vive in una perenne condizione di presente e non contempla il concetto della morte.
Femminismo e dintorni
Così come il tema della gravidanza, una costante nella filmografia di Almodóvar è un approccio solidale e femminista nei confronti del mondo delle donne: Janis e Ana (Milena Smit), i due vettori principali della vicenda, incrociano i loro destini nel reparto di ostetricia a pochi istanti dalla nascita delle loro creature. Entrambe sono delle madri single costrette a dover intraprendere il percorso della genitorialità da sole, dimostrando forza, vitalità ed una spinta energica eccezionale. Se Ana è una piccola donna in formazione, Janis è indipendente, in pieno controllo della sua vita, artefice del proprio destino; una donna che lavora ed eccelle nella professione di fotografa. Proprio attraverso la fotografia riesce ad esercitare il proprio controllo su ciò che le sta intorno, sul mondo che la circonda e i soggetti che si trovano a posare di fronte all’obiettivo della sua fotocamera. Tutto ciò assume un maggiore rilievo prendendo in esame il ruolo di prim’ordine e la funzione evocativa che possiede la fotografia nella diegesi costruita dal film; i personaggi parlano con le fotografie e delle fotografie, contenitori di persone, esperienze, sentimenti e momenti mai andati via del tutto, proprio perché catturati da uno scatto e resi, potenzialmente, eterni.
Ana, invece, è una ragazza neppure maggiorenne che si trova ad affrontare una gravidanza che è diretta conseguenza di una realtà di sopraffazione, di una società che pensa ancora con una mentalità maschile, violenta e ricattatoria che prova a calpestare l’individualità femminile e la dignità umana. Il femminismo portato avanti da Madres paralelas lo si può trovare didascalicamente nella simpatica t-shirt, indossata da Penélope Cruz, con su scritto “we should all be feminists” e, velatamente, nel coinvolgimento sentimentale che sboccia tra le due madri che danno il titolo al film. L’amore che lega le due, sicuramente sbilanciato, sembra nascere da una profonda stima reciproca, dal riconoscimento del loro valore, del loro coraggio, che le porta quasi ad assumere un ruolo simbolico, un modello da seguire per qualsiasi donna al mondo, andando oltre ogni stereotipo ed ogni modello sociale prestabilito.
Uno sguardo alla messa in scena
L’Almodóvar dell’era del digitale ha sicuramente ammorbidito la violenza e la dirompenza dei cromatismi della prima fase della sua carriera, in cui scenografie, costumi e fotografia erano parte integrante della creazione del senso in un mondo pervaso dal dramma ma comunque carnevalesco, grottesco, bizzarro e singolare. Pervasi da una “sobrietà” matura, i tratti distintivi relativi alla costruzione dell’immagine filmica restano comunque percepibili, se non, addirittura, evidenti: rimangono i colori eccentrici, seppur all’interno di arredamenti relativamente minimal, e una rappresentazione di una Spagna rurale legata alla tradizione e abituata a ritmi di vita più lenti di quelli della Madrid abitata da Janis ed Ana. Il regista spagnolo si dimostra, ancora una volta, un esteta, prestando un’attenzione minuziosa alla costruzione delle immagini, dando vita a quadri dal profondo valore artistico e poetico. I corpi, la loro materialità e le interazioni tra essi, restano le fondamenta dell’inquadratura almodóvariana. La regia è posata, elegante, si fa veicolo significante e attraversa con leggerezza gli spazi, con movimenti di macchina naturali, quasi impercettibili. Menzione d’onore per le superlative musiche di Alberto Iglesias, fedele collaboratore di Pedro Almodóvar, che non perde quel tono ispanico, allo stesso tempo folkloristico e malinconico. Le musiche sembrano quasi voler giocare con la materia del cinema stesso, con le convenzioni dei generi, richiamando talvolta il genere thriller, talvolta il noir, suggerendo colpi di scena inesistenti, maneggiando e arricchendo con sapienza la narrazione.
Storie di persone
Sul piano narrativo il film è ottimamente bilanciato, i rapporti sono ben delineati, così come le personalità e le situazioni messe in campo. Le sceneggiatura, partorita dalla mente dello stesso regista, assesta ottimamente un paio di colpi di scena, portando all’attenzione degli spettatori una storia per nulla prevedibile e con la quale non risulta difficile creare un legame d’empatia. La relazione tra Janis ed Ana è una svolta di trama imprevedibile, tanto interessante quanto delicata; Almodóvar ribadisce una finezza ed una naturalezza senza pari nell’affrontare situazioni possibilmente scabrose. Le due protagoniste sono anche vettore simbolico del tema principale del film: l’incontro tra il presente e il passato, tra due generazioni apparentemente distanziate da un muro di incomunicabilità, ma unite da un comune destino. Intensa e assolutamente degna di nota la prova attoriale di Penélope Cruz, che le è valsa la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile in occasione della 78ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Seppur il confronto con la Cruz risulterebbe inevitabilmente ingeneroso, anche Milena Smit, nell’imperfezione legata all’inesperienza, si dimostra parecchio convincente, riuscendo ad assumere le parvenze di una donna adulta quando condivide lo schermo con il personaggio di Janis, tramutandosi in una bambina, intimorita ed insicura, se posta accanto alla madre, interpretata da Aitana Sánchez-Gijón. Proprio quest’ultima riesce a bucare lo schermo in più di un’occasione, rendendosi protagonista di alcune sequenze intense e pronunciando la battuta più iconica dell’intero film: “Sono apolitica, mi interessa solo piacere”.
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