Rhythms of Lost Time (2021) – Anisa Sabiri

Il documentario di Anisa Sabiri, Rhythms of lost time, intende raccontare il popolo del Tajikistan attraverso le sue bellissime tradizioni

“A me interessa la realtà, la verità. Non mi interessa fare una storia su ciò che si trova nella mia testa”: questo il manifesto del pensiero di un grande regista italiano contemporaneo, come Gianfranco Rosi. E vedere un documentario così toccante e profondo, come quello di Anisa Sabiri, mi riporta alla mente le immagini del suo ultimo film, Notturno, e della vasta e meravigliosa cultura che attende al di là dei confini occidentali. Una realtà altra, così distante, eppure così profondamente antica, è quella di Rhythms of Lost Time, che risveglia un sentimento di nostalgia verso un modo di vivere così lontano, così legato alla terra. Un legame con la natura e con il divino che è andato progressivamente perdendosi nella società occidentale, ma che pare così presente in questo popolo, come se fosse parte di un retaggio intimo, identitario, identificativo. Il Tajikistan ha una storia tragica, perché è stato per tanti anni costretto a rinunciare alle sue tradizioni per imposizione sovietica e ora, finalmente libero, può riabbracciare le sue grandi tradizioni.

Anisa Sabiri

Attraverso questo documentario, Anisa Sabiri cerca di raccontare questo popolo e lo fa con la musica. Suoni religiosi, melodie liturgiche, scandite dal battito dei tamburi, melodie che non possono essere spiegate, ma che toccano in profondità le corde dell’animo. La documentarista ha la capacità di trasmettere il fascino di questi momenti sacri e lo fa attraverso la potenza delle immagini. Ci fa sentire parte integrante dei racconti e dei momenti più salienti del lungometraggio. Il suo è un cinema che avvicina le persone, mette in luce il fondamentale legame che lega ogni essere umano. Un legame che non ha nulla a che vedere con la razza, i confini spaziali, i grandi eventi storici. Un legame, piuttosto, tutto umano, che coincide con la storia personale di ogni individuo. Lo comprendiamo quando è un musicista inglese, Leo Abrahams, che ci racconta le sue emozioni relativamente a questi canti, come si senta toccato da quelle musiche a livello emozionale.

Una scena del documentario

Attraverso le sue parole, siamo in grado di decodificare le emozioni complesse che proviamo, davanti a momenti sacrali così belli ed emozionanti, quando veniamo trascinati da questa cinepresa sapiente all’interno delle case di persone comuni, presso questo o quel musicista, durante momenti fortemente emozionali come i funerali o i bellissimi matrimoni, dove si assiste ad una grande armonia di colori e di balli. La fotografia del documentario è il punto forte della regista, che nasce come poeta ma si specializza nella fotografia, raggiungendo dei livelli veramente stupendi. Si comprende il profondo legame della videomaker nei confronti del popolo di cui parla, il suo popolo. Si comprende il suo legame nei confronti di questa bellissima tradizione, fatta di danza, musica, nonché ospitalità.

Una delle scene più belle del documentario è il momento in cui questo musicista inglese viene trascinato ad un matrimonio e viene fatto sedere su un bellissimo tappeto persiano. Al centro di questo tappeto, vengono posti cesti di frutta, da cui il ragazzo è invitato a servirsi. È una scena stupenda perché in armonia con l’esterno, con il verde sfavillante della natura, che attornia il gruppo. È un film basato sull’assenza di luoghi, di confini. È il risultato di incontri, in case sempre diverse, in posti che cambiano, si arricchiscono di danze intorno al fuoco, testimonianze di chi ha vissuto l’esperienza sovietica come una crudele privazione. La religione, così intimamente legata a questo popolo, era vita come dannosa e andava quindi cancellata. Ma i canti sono sopravvissuti e la loro potenza è rimasta invariata, anzi. Forse è ancora più forte di allora.

Una scena tratta dal documentario

Da esterni, scopriamo questa realtà attraverso gli occhi stupefatti e curiosi del musicista e questo è davvero un importante espediente narrativo, perché ci consente di scoprire insieme a lui, dare più ampio respiro alle nostre emozioni, scrutare un popolo così lontano, che però finisce con l’emozionarci, toglierci il respiro. La reazione immediata dopo questo documentario è andare in Tajikistan e partecipare ad uno dei loro bellissimi matrimoni. È un desiderio inevitabile, che si rafforza proseguendo nella scoperta di questa grande artista, che nel 2018 ha girato un altro bellissimo film, presentato in moltissimi festival internazionali e che le ha fruttato il premio di Best Young Woman Storyteller, presso il festival di Brooklyn, Imagine This Women’s International Film Festival. Questo bellissimo lungometraggio, basato su una storia vera, racconta la storia del figlio di un giornalista ucciso, di come il ragazzo sostenga economicamente la famiglia e tenti di rimettere in sesto una famiglia disastrata. Si racconta la grande forza di un popolo, in grado di rialzarsi e combattere.

Uno dei musicisti più celebri del Tajikistan

Adesso, in questo documentario, si racconta il popolo attraverso le sue usanze più antiche. Sembra quasi che la regista abbia voluto fare una operazione simile a quella di Rosi. In questa cultura basata sull’abbondanza delle informazioni, Anisa Sabiri ha voluto fare un’operazione al contrario: togliere informazioni, far parlare i personaggi il meno possibile. Farli cantare, farli recitare canti pieni in lode al Dio, canzoni sacre, piene di sofferenza. Tirare fuori l’anima del personaggio, lasciare sul fondo il difficile passato che ha vissuto. Trasmettere il senso dell’attesa e speranza. Permettere agli spettatori di ricostruire loro stessi gli avvenimenti che non si raccontano. Riempire quei vuoti solo con canti melodiosi. E attraverso questa immersione nel canto, notare la forza di chi è rimasto e le bellissime tradizioni che lascia ai posteri.

Nasce nella provincia barese in quel del '94 con l'assoluta certezza di essere Batman. È in grado di vedere sette film al giorno e di finirsi una serie tv in tempi sovrumani. Peccato che abbia anche una vita sociale, altrimenti adesso sarebbe nel Guinness dei primati...
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