Recensione Freaks Out – Gabriele Mainetti
Gabriele Mainetti, dopo quel faro di speranza che era Lo chiamavano Jeeg Robot, con Freaks Out riesce a confermarsi quale una delle voci più importanti e diversificanti del panorama cinematografico italiano.
Con Freaks Out, film in concorso alla 78esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il metro di giudizio e paragone, dopo tanto tempo, non è più il cinema nazionale (“bello, per essere un film italiano”), perché il titolo in questione non sfigurerebbe affatto dinnanzi alle più costose produzioni hollywoodiane, sia per la qualità effettiva del prodotto finito, sia per l’amore e la passione percepibile da un’opera che non fuoriesce da un’industria ben organizzata e radicata, ma da un paese che ha quasi sempre visto il cinema in termini artigianali.
ATTENZIONE – LA RECENSIONE CONTIENE DEGLI SPOILER
Un immaginario unico e fantastico
Nonostante il film possa rimandare a tanti altri prodotti, che cita senza vergogna (Freaks di Tod Browning per la tematica, Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino per ambientazione, personaggi e soluzioni registiche – per citarne un paio), riesce a stupire per la sua freschezza sul piano narrativo, visivo, della creazione di un immaginario talvolta farsesco, talvolta dalla spiccata ironia di fondo (per esempio, il cubo di Rubik con su stampata una svastica). Complice della creazione di un forte immaginario è una spavalderia artistica che porta Gabriele Mainetti ad osare, ad andare oltre, a mostrare ciò che gli altri tengono nascosto, soprattutto in prodotti di questa portata: e quindi ci troviamo di fronte ad un fallo rotante ben esposto, a scene di sesso esplicite ed animalesche, a violenza non censurata. A dimostrazione di come, nonostante il budget sia sicuramente elevato per gli standard italiani (circa 12 milioni di euro), non si cerchi comunque un facile successo di pubblico, per un film che, nonostante la sua impostazione, sembra comunque destinato ad un pubblico d’essai, anche, se non soprattutto, per ragioni involontarie.
Personaggi tridimensionali e adorabili
Tutti i personaggi godono di una caratterizzazione estetica e visiva di altissimo impatto e sono perfettamente delineati nei loro ruoli, nei loro comportamenti e nella loro psicologia, nonostante si avverta la necessità di un maggior approfondimento per personaggi che riescono ad emergere solo in superficie, come quelli di Fulvio e Mario; il lavoro compiuto su personaggi come Matilde, Franz e Cencio, invece, risulta assolutamente adeguato e centrato. Grotteschi e tragicomici ma assolutamente adorabili risultano i protagonisti, impreziositi da prove attoriali di altissimo livello. Aurora Giovinazzo è bravissima e dotata di un talento innato; Pietro Castellitto riesce a dare vita ad una figura di inetto impossibile da non amare; Claudio Santamaria risulta incredibilmente intenso nonostante del suo corpo siano riconoscibili soltanto gli occhi. Franz Rogowski nei panni del nazista “freak” sembra essere una versione ancora più eccentrica e fumettosa dell’Hans Landa interpretato da Christoph Waltz del già citato Bastardi senza gloria. Proprio il personaggio cui dà vita è protagonista di momenti di estrema originalità, come la preveggenza onirica dettata dall’uso di sostanze stupefacenti e dunque l’interazione, con ben settanta anni di anticipo, con uno smartphone, o vederlo con indosso una tuta sportiva simil Nike o Adidas, ma con su cucita una svastica dorata, fino ad arrivare al momento dell’eccentrico suicidio: tutte scelte che, volendo azzardare un paragone forse troppo generoso, ricordano un gusto grottesco per la dimensione onirica tipico di una delle più grandi figure autoriali del nostro cinema, Federico Fellini. E anche personaggi secondari come il Gobbo, interpretato da Max Mazzotta, stupiscono per la loro unicità e funzione narrativa.
Un’impresa straordinaria
Freaks Out è evidentemente un’opera che ha richiesto anni e anni di lavoro, con attenzione chirurgica al dettaglio, cercando una perfezione nel risultato finale che, con i dovuti accorgimenti, sembra essere raggiunta, tra un’ottima regia in cui i movimenti arditi della macchina da presa risultano inafferrabili e di una naturalezza estrema, un montaggio chiaro e pulito che crea un ritmo narrativo disteso, una fotografia che, mista all’eccelso comparto degli effetti visivi e speciali, riesce a creare un mondo favolistico assolutamente tangibile. Nonostante l’esperienza della visione non abbia restituito, nel nostro caso, tale sensazione, è necessario segnalare come la durata della pellicola potrebbe risultare eccessiva. E se, nuovamente, dopo il film d’esordio del regista, i protagonisti sono dei supereroi (questa volta decisamente assimilabili al gruppo targato Marvel degli X-Men), al centro della storia raccontata si trova una destrutturazione del genere, con forte ironia e toni grotteschi, senza alcun tipo di ruffianeria nei confronti di produzioni e pubblico statunitensi, ma mantenendo una salda identità nazionale assolutamente riconoscibile.
Uno sguardo alla nostra storia
Allo stesso tempo si tratta di un film in cui gli orrori della seconda guerra mondiale non passano in secondo piano, si trova un’Italia in cui i freak non sono soltanto omoni pelosi o donne elettriche, ma chiunque si trovi coinvolto nella lotta contro i regimi nazi-fascisti. Ed è qui che il termine “freak” assume in maniera preponderante il significato e l’accezione di “outsider”, in una realtà in cui si sperimenta un’unione, probabilmente insolita, tra persone assolutamente differenti tra loro, per fronteggiare un nemico comune. Il tutto portato su schermo con dei toni favolistici che restituiscono una gran forza al messaggio di fondo della sceneggiatura, senza l’esclusione di sequenze drammatiche o dal forte pathos, perfettamente alternate a momenti in cui la risata sorge spontanea e sincera.
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