You 3 – Recensione Serie TV Netflix – Adele Porzia
La serie Netflix You, dopo due stagioni, è arrivata alla terza e annuncia una quarta. Seppure con un tono divertito, la recensione mette in luce i difetti enormi della sceneggiatura e vuol comunque sorridere sul potere della serie di tenerci incollati allo schermo.
Ed ecco che è uscita la terza stagione di You. I fan (manifesti e nascosti) della serie sono in visibilio, anche perché ancora prima che uscisse sulla nostra amata piattaforma streaming Netflix già sapevano che vi sarebbe stato un quarto capitolo. E naturalmente chi vi scrive non vede l’ora di scoprire che altro si inventeranno.
Le menti dietro questo progetto sono Greg Berlanti e Sera Gamble. Il primo è un regista e sceneggiatore statunitense, implicato nelle serie DC, come The Flash, Arrow, Supergirl, e che ha diretto un film dolcissimo come Tuo, Simon. Sera Gamble è, invece, una produttrice oltre che sceneggiatrice, sempre statunitense, nota per prodotti come Supernatural e The Magicans.
Per queste tre stagioni hanno avuto una gloriosa opera letteraria cui ispirarsi: i romanzi di Caroline Kepnes, di cui sfortunatamente solo il primo tradotto in italiano. I fan saranno costretti a leggere il seguito in lingua originale. Lo ritenevo impensabile, lo ammetto, che si potesse fare peggio dei libri, ma i due che, meglio sottolinearlo, sono sceneggiatori navigati sono riusciti nel difficilissimo intento.
È incredibile, bisogna darne loro atto.
Una sceneggiatura indimenticabile (in negativo)
E non solo la sceneggiatura di questa terza stagione è terribile, ma la regia in certi momenti è ancora peggio. Nelle sequenze diurne, il caro regista Greg riesce a girare delle scene sgranate che fanno male ai poveri occhi degli spettatori. Ma c’è da dire che, come insegnava il grande Hitchcock, la sceneggiatura è tutto e in questa stagione è sinceramente la sola cosa che bisogna guardare. I personaggi parlano di tutto: dal poliamore all’unità familiare, dai consigli alimentari ai consigli di coppia, dal covid al vaccino, da chi è pro-vax a chi è no-vax.
Si riesce a parlare di qualunque cosa e ad inserire comunque riferimenti squisitamente letterari, scontatissimi, adatti ad un pubblico di adolescenti: come la celeberrima frase del Piccolo Principe (“è il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante”) o il finale de Il Grande Gatsby (“è così navighiamo, barche controcorrente, risospinte senza posa nel passato”). Riferimenti che un lettore meglio coglie di certo e senza alcun problema e che, una volta colti, lo fanno sentire un po’ più intelligente. Eppure, è sempre bello quando una serie propone libri da leggere e questo, nonostante tutto, è di certo un punto a suo favore. Ma non è tutto. Sono i riferimenti alla cultura popolare e al pubblico americano che ha visto il film e letto il libro di Cinquanta sfumature di Grigio che colpiscono, non appena sentiamo una delle vittime del nostro stalker beniamino invitarlo nella sua stanza delle letture… Ma che ne sa Mr. Grey? Quante chance può avere la sua stanza dei giochi con un’avversaria del genere?
Perché, Victoria Pedretti? Perché hai recitato in questa serie?
A parte le grasse risate che vi farete, vedendo questa terza ma non ultima stagione di You, permettetemi di illustrarvi uno dei portentosi dialoghi che ascolterete nella prima puntata della stagione, ancora pensate che chi vi scrive stia esagerando sulla questione della sceneggiatura. Parlano Joe (che ricordiamo è Penn Badgley, reso celebre da Gossip Girl, di certo non per le sue capacità e doti attoriali) e sua moglie, Love (Victoria Pedretti, davvero una grande attrice e lo dico senza il minimo sarcasmo, ma con un velo di tristezza) sono in prossimità di una scena ricca di libido – anche se tutte le scene di sesso rasentano l’orrore e ci vuole una grande (in)capacità nel riuscirci – e allora Joe dice (più o meno, non intendo rovinare la sorpresa): “Nelle promesse, mi avevi assicurato sempre un pezzo della tua ciambella”. Lei lo guarda ammiccante, sensuale, sprecata per questo ruolo e gli dice “hai fame?”. Seguono baci ricchi di passione, in una delle scene sensuali meno riuscite della storia delle serie tv Netflix.
Al di là, di quanto facciano divertire alcuni discorsi che vogliono essere profondi, che intendono essere femministi e politically correct, senza riuscirci minimamente, al di là di questi dialoghi senza senso, è ammirevole (mi tocca ripeterlo) la capacità di riempire col niente e omicidi dieci puntate da quasi un’ora l’una. Ci vogliono notevoli capacità, è inutile. E ancora di più (qui risiede il genio) perché non si riesce a staccare gli occhi un attimo dallo schermo. Non se ne ha mai abbastanza di Joe Goldberg e family, e ora che è finita anche questa stagione il solo interrogativo che mi faccio, carica di curiosità, è: cos’altro diamine vorranno fare in questa ulteriore stagione? Ma soprattutto, riusciranno a fare peggio di così? Anche se forse, a conti fatti, questa stagione è per certi versi meglio della prima e certamente migliore della seconda.
Oggettivamente, al di là dello scherzo, il vero rimpianto è Victoria Pedretti, un’attrice del 1995 che ha mostrato il suo valore proprio lavorando per la serie The Haunting di Netflix. Si è rivelata un’attrice piena di pathos, emozionante, in grado di trasmettere tanto al pubblico. Sicuramente è la sola cosa davvero buona di questa stagione e, non credo sia un azzardo dirlo, anche dell’intera serie.
Davvero una bravissima attrice, in grado di passare dalle lacrime alla rabbia, restando credibile, in una serie che, se proprio la si vuol prendere sul serio, fa acqua da tutte le parti.
Uno dei riferimenti seri di questo film è a Basic Instict (naturalmente la sua scena più celebre) e poi a Mr. e Mrs. Smith, per esempio per la terapia di coppia che fanno, la cena dell’ultima puntata e tante altre piccole cosucce. Sono tutti riferimenti immediati, perché non c’è la voglia di far troppo impegnare lo spettatore. Fortunatamente, non è un prodotto che vuol darsi arie.
Tenta in alcuni momenti, ma è chiaramente un modo per divertire e per far passare un bel po’ di tempo attaccati allo schermo, famelici di vederne ancora, ancora e ancora, di soddisfare quel desiderio di trash che alberga in ognuno di noi.
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