Diretto da Liesl Tommy, Respect è il più recente biopic che, sull’onda lunga del successo di Bohemian Rhapsody, porta in scena l’ascesa della celebre cantante Aretha Franklin.
Respect – Recensione – Il biopic oggi
Nonostante il grande successo – e la qualità relativamente alta – di pellicole come Ray e La vie en rose, per le quali Jamie Foxx e Marion Cotillard vinsero i loro (per ora) unici Oscar per le rispettive interpretazioni di Ray Charles e Edith Piaf, è stato nel 2018, con l’inaspettato successo planetario della pellicola su Freddie Mercury, che il biopic si è affermato come una sicura carta vincente per i grandi studios britannici e statunitensi. Due anni dopo Bohemian Rhapsody, agli Oscar del 2020, il mediocre Judy si aggiudica un premio in una stagione in cui pellicole destinate alla storia del cinema come Midsommar vengono completamente ignorate dall’Academy; l’anno dopo ancora è il turno di The United States vs. Billie Holiday, film meno che mediocre sorretto tuttavia dalla notevole interpretazione di Andra Day. Il 30 settembre del 2021, a essere gettata in pasto al pubblico generalista tramite una serie di stereotipi del genere ormai codificati, sarà Aretha Franklin.
Respect – Recensione – Regia e recitazione
Respect è un film registicamente accademico, già visto ma sicuramente più corretto del suo più diretto precedente, ovvero il visivamente sconcertante The United States vs. Billie Holiday, da cui però riprende senza la stessa incisività la tematica del razzismo e soprattutto l’unica novità introdotta in un genere già crepuscolare, ovvero il casting per il ruolo di attrice protagonista di un’autentica cantante, a cui è affidato il difficile compito di prestare non solo il volto ma anche la voce all’iconica figura interpretata. Dove però trionfa Andra Day, che riesce non solo a trasformare la propria voce ma anche a interpretare in modo credibilissimo un personaggio complesso come quello di Billie Holiday, fallisce Jennifer Hudson.
Il declino di un genere
L’attrice, dopo l’esperienza di Cats, mostra un particolare coraggio nell’accostarsi a un mostro sacro della musica contemporanea come Aretha Franklin, della quale non arriva mai a possedere il carattere e purtroppo, nonostante le capacità sonore indubbiamente notevoli, neanche la voce. Il film, dall’eccessiva durata di quasi due ore e mezza, non ha né particolari pregi tecnici né tantomeno pathos, e mette una certa amarezza vedere sullo schermo, nei panni del padre di Aretha, Forest Whitaker: l’attore, nel 1988, aveva infatti interpretato Charlie Parker nel Bird di Clint Eastwood, biopic “ante litteram” che, alla luce della sempre più palese banalizzazione del genere, sembra quasi un capolavoro.
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