First Cow (2019) – Recensione – Kelly Reichardt

Kelly Reichardt, una delle più importanti registe indipendenti statunitensi, con First Cow firma un western autoriale e atipico, disponibile su Mubi Italia dal 9 luglio.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da cinefilanonima (@cinefilanonima)

Kelly Reichardt, una voce fuori dal coro

Il percorso di Kelly Reichardt, montatrice oltre che regista e co-sceneggiatrice del film, è segnato da un deciso rifiuto dei meccanismi di produzione e distribuzione delle grandi majors hollywoodiane. Dopo Meek’s Cutoff (2010), la cineasta torna con First Cow ad affrontare il genere western: il film segna anche la sua prima collaborazione con l’ormai famosissima A24, casa di distribuzione (e in altri casi anche di produzione) nota per la promozione di prodotti indipendenti che si discostino dagli stilemi tipici del cinema mainstream.

Comparto visivo e tematiche affrontate

First Cow è un film decisamente antispettacolare in ogni sua componente: la regia, spoglia di virtuosismi e perfettamente funzionale, segue i due attori protagonisti facendo attenzione a sottolineare il rapporto tra uomo e natura, tematica fondamentale dell’opera, mentre la fotografia, avvalendosi di un interessante formato 4:3 e utilizzando apparentemente luce naturale, riesce a restituire, talvolta a scapito di una completa visibilità, le atmosfere e i colori dell’Oregon di metà ‘800.

Oltre al rapporto uomo-natura, il film affronta con sensibilità il tema dell’amicizia e mostra con un approccio inedito la conquista del West, dipinta non come gloriosa o comunque affascinante epopea ma come la violenta colonizzazione culturale di un’Inghilterra superficiale e liberista, che con l’imposizione della propria mentalità soffoca la multietnicità e la nuova libertà potenzialmente offerte dalle “nuove terre” in cui il film è ambientato. La prima mucca evocata dal titolo rappresenta appunto questa colonizzazione: la costrizione della mucca in una recinzione, mostrata nel corso del film, richiama coerentemente il pensiero di Rousseau, secondo cui “il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire ‘questo è mio’ […], fu il vero fondatore della società civile”.

Una sceneggiatura incerta

Nonostante la riuscita resa visiva, l’originalità e l’interesse degli argomenti affrontati e l’ottima interpretazione di John Magaro, la sceneggiatura, basata sul romanzo The Half-Life del co-sceneggiatore Jonathan Raymond, dilata i tempi in modo eccessivo e ostentato, risultando quindi troppo dispersiva e impedendo una messa in scena davvero incisiva delle tematiche trattate.

Classe ‘98, milanese trapiantata a Roma che all’età di cinque anni si innamorò di Marilyn Monroe guardando Niagara in televisione. Introdotta da Tarantino al magico mondo dei B movies, spera un giorno di guadagnarsi il pane sceneggiando grazie agli spiriti guida di Billy Wilder e Charlie Kaufman.