Il primo lungometraggio di Stanley Kubrick, disponibile su Indiecinema.it, è la metafora di tutte le guerre già accadute e di quelle che avverranno in futuro
Il primo approccio ai film di guerra
Opera prima di Stanley Kubrick, Paura e desiderio (1953) è una pellicola del tutto indipendente, finanziata dallo stesso regista e da una raccolta fondi tra amici e parenti.
Precursore dei più noti “Orizzonti di gloria” (1957) e “Full Metal Jacket” (1987), il film (disponibile in streaming sul portale Indiecinema.it) costituisce il primo approccio di Kubrick al cinema di guerra.
La pellicola segue le vicende che coinvolgono quattro uomini (il tenente Corby, il sergente Mac e i soldati semplici Sydney e Fletcher), il cui aereo precipita sei miglia dietro le linee nemiche. L’obiettivo dei quattro diventa quindi quello di elaborare e mettere in atto una strategia valida che consenta loro di ricongiungersi al loro battaglione.
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Metafora di tutte le guerre
A fronte di una trama tutt’altro che intricata, l’originalità e la profondità di pensiero che caratterizzano “Paura e desiderio” – e che lo rendono ancora oggi attualissimo – affondano le loro radici nella costruzione di una significativa metafora della guerra, da intendersi tanto come prassi quanto come ideologia.
Il film si apre con un’inquadratura su una foresta, ospitata tra i monti, in cui sembra risuonare la voce fuori campo:
“C’è una guerra in questa foresta. Non una guerra che è stata combattuta o una che lo sarà. Semplicemente una guerra. E i nemici da combattere qui non esistono, a meno che non li inventiamo noi. Questa foresta e tutto ciò che sta avvenendo sono fuori dalla storia. Sono le forme monotone della paura, del dubbio e della morte ad essere del nostro mondo. Questi soldati che vedete parlano la nostra lingua e usano il nostro tempo, ma non hanno una patria, se non nella loro mente.”
Lampante ed immediato appare il riferimento al carattere di pura finzionalità degli eventi che si dispiegheranno durante il film. Il focus non è quindi su una guerra specifica – sebbene la pellicola sia stata girata e distribuita durante la guerra di Corea – bensì sulle dinamiche che accomunano qualsiasi conflitto tra fazioni.
Gli uomini sono isole
Per mezzo di una sceneggiatura ben articolata e particolarmente suggestiva, Paura e desiderio riesce a pieno nel tentativo di mettere a nudo l’assurdità di una guerra qualsiasi che spezza irrimediabilmente l’idilliaca ed aurorale condizione di armonia ed unità in cui gli uomini dovrebbero idealmente vivere:
“Nessun uomo è un’isola. Forse questo era vero molto tempo fa, prima dell’era glaciale. E i ghiacciai si sono sciolti e ora sono tutti isole. Parti del mondo fatte solo di isole.”
Nei pensieri del tenente Corby, l’umanità viene assimilata ad una terra sin dagli albori sminuzzata in frammenti circondati dall’acqua, privi di qualsiasi ponte naturale che li colleghi.
Il calore, le passioni, la capacità propriamente umana di “sentire” – tutte proprietà che rendono l’uomo tale – vengono annullate dal freddo incedere della guerra, come è reso evidente da un’altra, chiarissima immagine evocata dal tenente Corby:
“Stufato freddo in un’isola infuocata: abbiamo appena dato la definizione perfetta della guerra”.
Umanità frammentata e incomunicabilità
Come si evince già dal titolo, Paura e desiderio è un film, più che sulla guerra stessa, sull’uomo che, indipendentemente dalla patria alla quale ritiene di appartenere, risulta imprigionato in un ruolo innaturale e doloroso per sé e per gli altri:
“Che cos’è una prigione per me, se non scavare una tomba per gli altri?”
Le paure e i desideri che abitano l’animo umano sono ciò che accomunano gli individui e che idealmente li uniscono gli uni agli altri. A dividere, a frammentare, a rompere il naturale ed istintivo legame tra gli uomini sono i conflitti generati dalle pulsioni più primitive ed ostili. Tra questi l’impulso al dominio e alla sopraffazione dell’altro-da-sé è fonte per eccellenza di un’incomunicabilità che è origine e al contempo conseguenza di ogni conflitto. Quella stessa incomunicabilità di cui si erge a simbolo l’unica figura femminile presente all’interno del lungometraggio: una donna che non parla la stessa lingua dei quattro soldati (poiché appartenente alla fazione nemica) e la cui comparsa in scena sembra innescare la follia di Sydney. L’incapacità di comprendere e di farsi comprendere diventa qui il detonatore di uno squilibrio psichico che il giovane aveva sino a quel momento tentato di reprimere.
Identità e confini artificiosi
Il film di Kubrick sembra quindi sottolineare quanto ciascun conflitto, indipendentemente dalle questioni materiali in gioco, sia in realtà originato dalla scarsa capacità dell’uomo di controllare i suoi istinti più violenti e di riconoscere in ciò che lo rende propriamente umano l’unico, autentico nucleo identitario che dovrebbe guidare la sua esistenza.
I confini tra stati, le distinzioni tra gruppi di individui dotati di caratteristiche esteriori tali da richiedere una separazione netta non sono che espedienti artefatti volti ad alimentare e a rafforzare un’identità falsa, definita in termini di contrapposizione, scontro, proiezione di valori negativi su ciò che l’individuo artificiosamente addita come diverso da sé.
Non è difatti un caso che i due principali nemici dei quattro soldati, vale a dire il generale e il capitano Peter, siano interpretati dagli stessi attori che vestono i panni del tenente Corby e del soldato semplice Fletcher. Come non è un caso che i tormenti e le paure da questi espressi si confondano facilmente con quelli dei loro nemici.
La potente verità di cui “Paura e desiderio” si fa portavoce si evince proprio da questo: nel film di Kubrick non esistono né buoni né cattivi. Esistono solo esseri umani, così simili eppure così profondamente divisi, inamovibili nelle loro posizioni, coi piedi ben saldi su quel pezzo di terra che sono soliti definire “patria”, in opposizione alla “patria” degli “altri”.
Paure e desideri
La pellicola si chiude con il definitivo riconoscimento dell’incapacità di autocontrollo e dell’artificiosità di pensiero quali semi di qualsiasi guerra. Questa, infatti, che se ne esca da vincitori o da vinti, non può che condurre a dolore e confusione, poiché – rielaborando parte del pensiero del tenente Corby – essa obbliga l’individuo a oltrepassare i confini della propria umanità, sino a non riconoscersi più.
Il successo di una missione o la vittoria di una guerra sono fonte di una gioia temporanea ed illusoria poiché non è nella natura dell’umanità rallegrarsi della sua infelicità e farsi causa della sua stessa autodistruzione per mezzo di feroci conflitti interni.
Fletcher: “…anche io in parte sono felice e mi sento libero all’improvviso, ma in qualche modo non voglio ciò che volevo prima. So che è giusto, ma non voglio nient’altro. Mi sento confuso. Vorrei poter desiderare ciò che volevo prima (…) Penso di non essere adatto a questo.”
Corby: “Nessuno lo è. È uno stratagemma che usiamo quando non vogliamo morire subito.”
Quella finale è dunque una riflessione che non può che sancire definitivamente il valore atemporale dell’opera prima di Kubrick. Questa sembra infatti essere stata scritta tanto per il pubblico di oggi quanto per quello di settant’anni fa. Perché, in fondo, le paure e i desideri dell’uomo, anche quelli più deprecabili, sono sempre gli stessi.
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