The Investigation, recensione della serie che affronta un dramma a fuoco lento che rifiuta di cadere nel vero crimine. Il suo ritmo monocorde risulta frustrante, ma nonostante questo, la miniserie nordica ha avuto molto successo nella critica. Saremo dello stesso avviso anche noi di Nerdream? Scopriamolo subito!
La morte della brillante e pluripremiata giornalista svedese Kim Wall ha fatto notizia in tutto il mondo nel 2017, soprattutto perché i dettagli del suo omicidio erano così raccapriccianti che sembrava quasi un’opera di fantasia. La morte di Wall è stata molto pubblicizzata a causa del suo impressionante portfolio di lavori in pubblicazioni di alto profilo come The Guardian, The New York Times, TIME Magazine e Slate.
The Investigation di Tobias Lindholm è una miniserie in sei episodi basata sull’uccisione della giovane giornalista. Nella narrazione filmica la brutalità di quel crimine non è mai l’obiettivo principale. Invece di cercare di sfruttare il dramma dietro questa tragedia, Lindholm sceglie di concentrarsi sull’altro lato della storia: il duro lavoro e la determinazione della squadra di polizia Norvegese. Questa sembra una scelta strana. Le serie true-crime a cui siamo abituati tendono a fare l’esatto contrario di quello che Lindholm ha provato a realizzare qui.
Sarà stata una scelta azzeccata? Inutile girarci attorno, per noi no! Ma le motivazioni le scopriremo passo passo nell’articolo. Ora andiamo con ordine, procedendo con il riassunto degl’ultimi due episodi della serie.
Trama episodi finali di The Investigation
Episodio 5
Anche con le enormi scoperte dei sommozzatori, Jakob ammette che ci sono ancora troppe poche prove per accusare il sospetto di omicidio, nonostante la sua storia sia cambiata drasticamente dal suo racconto iniziale. Nikolaj incontra un esperto di sottomarini che contraddice l’ultima dichiarazione del sospetto e un analista informatico forense scopre alcuni contenuti molto inquietanti sui suoi dispositivi.
Episodio 6
Il procuratore capo Jakob-Buch Jepsen (Pilou Asbæk) mette in chiaro a Jens Møller (Søren Malling) che hanno bisogno di prove più solide per portare avanti le accuse nel caso. Altrimenti, rischiano che l’accusato sia libero. L’investigatore Maibritt Porse (Laura Christensen) si rifiuta di abbandonare il caso, e dopo quasi 6 mesi di duro lavoro trova la chiave che potrebbe fugare ogni ragionevole dubbio. Jens Møller sembra aver risolto un caso impossibile, ma allo stesso tempo si rende conto che il suo tempo come capo della Omicidi sta per finire.
L’investigatore Maibritt Porse (Laura Christensen) poco prima di immergersi nelle lunghe ricerche notturne che porteranno ad una svolta determinante per il caso, pronuncia queste parole:
È un crimine goffo e disgustoso. Quindi dobbiamo aver trascurato qualcosa
Pensando alla recensione di The investigation, mi son detto: “Se solo Tobias Lindholm, dopo aver rivisto il suo lavoro avesse attribuito questa battuta al suo operato, allora avremmo avuto sicuramente un prodotto degno di questa storia”. Parafrasando la battuta di Maibritt Porse, Lindholm, confrontandosi con i suoi collaboratori avrebbe dovuto esprimersi così:
È un serie goffa e disgustosa. Quindi dobbiamo aver trascurato qualcosa
Ma vedendo il risultato finale proposto, la riunione ultima si è sicuramente conclusa, con molte pacche sulle spalle e sorrisi regalati come gesti di pace in chiesa durante l’atto religioso invocato dal prete.
The Investigation recensione della serie
Sono molte le recensioni di The investigation che parlano di una serie rispettosa, perché ha intrapreso la scelta di non mostrare, ne nominare Peter Madsen, cioè l’assassino di Kim Wall.
Ma siamo davvero sicuri che tale scelta possa vantarsi di questo aggettivo?
Una giovane e talentuosa giornalista. I cui lavori l’hanno portata ad avere titoli su The Guardian, The New York Times e Slate, trova il massimo riconoscimento post-morte da una serie che analizza il suo omicidio senza citare il suo crudele assassino. Stiamo scherzando o davvero vogliamo vivere con gl’occhi bendati da una stupida e superficiale ipocrisia? Penso che questa ultima opzione, purtroppo sia quella presa più in considerazione.
Molte strade avrebbero potuto portare il giusto riconoscimento ad una giornalista, che ancora oggi trova fama per la sua uccisione e non per gli articoli e le ricerche affrontate. Volete una prova concreta? Provate a digitare Kim Wall sulla barra di ricerca di Google. Si parla di omicidio, di tragedia, del tanto innominabile Peter Madsen, ogni tanto per fortuna compaiono delle notizie riguardanti il Kim Wall Memorial Fund. Una raccolta fondi creata dalla famiglia di Kim in collaborazione con l’International Women’s Media Foundation, per aiutare le giovani giornaliste. Addirittura Wikipedia (Italia) dedica una pagina all’Omicidio di Kim Wall e non alla giornalista.
Qualche sito mette in evidenza i suoi articoli e le ricerche che tanto banali non sono state, e anche bene a mio avviso, ma dobbiamo avere la pazienza di cercare queste informazioni nelle pagine più remote proposte dal motore di ricerca. Il Corriere della Sera dedicò alla giornalista una sintetica ma decisiva pagina, riportando le parole di parenti ed amici di Kim:
Ricordiamo Kim Wall per il suo lavoro, non per come è morta
Potete recuperare l’articolo della nota testata giornalistica QUI, che inoltre racchiude tutte le pubblicazioni più note della vittima.
Cosa resta al pubblico?
Non tutti conoscevano la tragica storia legata a questa serie. Di conseguenza, non tutti erano al corrente delle ricerche e degli articoli di questa giovane giornalista. Ma alla fine della visione di questa mini serie, cosa resta a noi?
Una donna è stata fatta a pezzi e buttata in mare e l’assassino è stato catturato.
Se dovessi colloquiare con qualcuno che ha seguito la serie, domandandogli: “Scusa, ma Kim Wall nei suoi articoli, nelle sue ricerche, che tematiche affrontava? Politiche? Sociali? urbanistiche?” Non penso che avrei mai una risposta. Volete davvero farmi credere che questo per voi vuol dire trattare in maniera rispettosa una vicenda? Consentitemi di dissentire!
Se proprio si voleva dare una storia rispettosa, l’umanità e la determinazione dimostrata per mezzo della sua penna, sarebbe stata la strada più corretta.
Un opera senza coraggio
Più penso a questa recensione riguardante The investigation più ne resto deluso. Non si è avuto il coraggio di prendere una decisione, di affrontare una scelta. E non giustifichiamo il tutto con la classica frase che in queste situazione viene sempre rispolverata: “È la classica atmosfera che caratterizza le visioni scandinave”.
Se l’intento era quello di rendere omaggio ad una giovane giornalista, sono convinto che si poteva affrontare la sua vita prima di quel triste scenario. Una docu-serie, per esempio. Un film documentario sulle sue ricerche e sulla sua crescita professionale. Questi sono solo alcuni, banali esempi.
Se invece si voleva mettere in evidenza la costanza e le difficolta delle indagini, allora si doveva avere il coraggio di mettere sul tavolo tutto quello che questo caso ha davvero affrontato. Che senso ha omettere l’assassino? Se decidi di affrontare la produzione di una serie che affronta un crimine, questa può rispettarlo anche se è costretta ad affrontarne tutte le tematiche. Mindhunter ne è la prova. E il buon Tobias Lindholm dovrebbe saperlo.
Doveva essere una serie che narrava una vicenda compiuta, un’opera che non doveva dar voce ad una storia misteriosamente archiviata. Come ha dovuto fare il regista Domenico Ciolfi che ha deciso di realizzare un film sulla vicenda legata al ciclista Marco Pantani (Il caso Pantani – L’omicidio di un campione). Un film che fa emergere dettagli sconvolgenti. Un lungometraggio che urla a gran voce: È l’ora della verità.
Allora perché questa atmosfera piatta? Perché decidere di fare una serie su un crimine omettendo tutti i dettagli che maggiormente caratterizzano il genere? Parliamoci chiaro, è come dichiararsi fan accanito di Star Wars e non sapere cosa sia il Millennium Falcon. Davvero non riesco a darmi una risposta.
The Investigation recensione delle indagini
Sento già le voci in sottofondo che mi dicono: “Questa serie però analizzava lo sviluppo delle indagini, la serietà nel portare avanti il lavoro con dedizione e precisione”
Penso di non essermi mai annoiato cosi tanto nel veder risolvere un caso di omicidio. Posso capire che la scelta narrativa possa essere una questione molto soggettiva, ma la messa in scena della vicenda ricade in un giudizio oggettivo. Un giudizio che non può che essere palesemente negativo!
Sono consapevole che ogni vicenda per essere fruibile debba avere una parte romanzata per facilitare il racconto filmico. La difficoltà sta nell’evitare quei cliché che possono risultare stucchevoli e inutilmente noiosi.
Clichè
Una serie che non cade in cliché, una serie che affronta la tematica in maniera del tutto originale e rispettosa. Sull’ultimo punto mi sono soffermato in precedenza, ora vorrei analizzare la questione dei Clichè.
Abbiamo un commissario (Jens Møller), che guarda caso non ha tempo per la famiglia. Non è mai stato presente per la figlia ed ora che avrà un nipotino, la stessa figlia vorrebbe che le cose siano diverse.
Maibritt Porse, assistente del commissario che non vuole mollare, e dopo mesi di ricerche decide di dedicare una notte in terra per ripartire da capo. Rilegge tutti i fascicoli, dalle primi indagini fino alle ultime vicende. Ci fosse Archimede nella serie, esclamerebbe Eureka! Il dettaglio cruciale è stato scovato!
Chiamata nella notte al commissario perchè si sa, questi dettagli non compaiono mai di giorno nel normale svolgimento del lavoro, loro arrivano improvvisamente nel pieno della notte! Il procuratore, Johan Philip Asbæk bardato come una brutta copia di Leonardo Di Caprio, viene convocato subito nella sede della polizia, e la sua frase d’esordio non poteva che essere:
Non è stato bello lasciare la festa di Natale dei miei figli, quindi spero sia importante!
Perché si può aver trovato la soluzione alla fame del mondo, ma ricordatevi sempre, un procuratore non può essere tale, se non ha di meglio da fare che stare ad ascoltare la risoluzione di problematiche. Ad esempio pettinare un gatto o festeggiare una ricorrenza che si ripete ogni anno.
Per concludere, non poteva mancare la frase ad effetto del commissario Jens Møller, che vi riposto testualmente qui sotto:
Sai a quanti omicidi ho lavorato? 138 (pausa per la suspense) Ma non mi era mai capitato un caso del genere
Questi sono solo alcuni esempi. Ma se voi pensate che quelli appena citati non siano Clichè, beh allora io sono Wookiee e mio papà è Chewbecca!
Per concludere
Pensando alla recensione di The Investigation, e riflettendo su cosa questa serie mi ha lasciato, posso trarre alcune conclusioni.
In Danimarca si può bere la birra in ufficio, anche se fai parte della polizia e stai analizzando le prove di un caso importante. A patto che la birra sia rigorosamente Tuborg.
Puoi essere commissario di un caso folle, al limite della fantasia, ma allo stesso tempo puoi risolverlo senza mai interloquire direttamente con il presunto ed unico sospettato. Mai uno scambio di battute, mai uno scambio di sguardi o di emozioni. Se te, sei un commissario in Danimarca, puoi risolvere il caso semplicemente allenandoti allo tiro al piattello.
Un’altra scoperta interessante riguarda la squadra di sommozzatori che hanno turni di lavoro da 24 ore per un tempo indefinito. Indefinito come il perimetro del fondale di un mare da setacciare in maniera dettagliata. Ma la scoperta più interessante per questa affascinante unità, riguarda le loro particolari divise mimetiche, con tonalità che passano da verde al marrone. In Italia verrebbero scambiati per dei semplici cacciatori di papere, ma si sa, il mare in Norvegia assume delle sfumature di verde/marrone molto interessanti.
La Crime-Story senza crime diventa una banale story… Un po’ come la birra analcoolica! Concordo con te al 100% caro Salati…