Sound of Metal (2019) – Recensione – Darius Marder

L’esordiente Darius Marder scrive e dirige una storia intensa sull’accettazione di sé e dei propri limiti

Un debutto convincente

Sound of metal è un film del 2019 scritto e diretto dall’esordiente Darius Marder, i cui precedenti cinematografici prima di questo lungometraggio risalgono alla stesura della sceneggiatura di Come un tuono del 2012 (insieme a Derek Cianfrance e Ben Coccio) e alla realizzazione del corto Loot (2008). Ciò che maggiormente stupisce della direzione di Marder è sicuramente la sua capacità, evidente sin dalle prime sequenze, di immergere lo spettatore nel mondo di Ruben (interpretato da un ottimo Riz Ahmed), ex tossico e batterista di un duo musicale che nel giro di poco tempo si ritrova a perdere quasi del tutto l’udito.

Tema e sonoro

Fermo restando una sceneggiatura non particolarmente esaltante, la pellicola ha il grande merito di trattare un tema delicato e sicuramente non preponderante nel mondo del cinema in modo abbastanza originale.

L’interrogativo che Marder ci pone nella prima parte del film è: come e quanto può essere stravolta la vita di un uomo che letteralmente vive di musica, la forma d’arte che più di ogni altra richiede una vivida capacità di ascolto?. La grande sensibilità di questo film sta nel generare la risposta a questa domanda direttamente nel cuore e soprattutto nelle orecchie dello spettatore, che soffre tanto quanto il protagonista l’improvviso cambiamento che lo ha coinvolto. Il film si apre infatti con alcune sequenze in cui a farla da padrone è proprio il suono: prima il concerto, poi i rumori della vita quotidiana. Alle prime scene (quelle della normalità) –  che tuttavia portano già a livello sonoro i primi indizi di ciò che di lì a poco accadrà – segue una brusca cesura.

Grazia ad un notevole lavoro sui suoni, il rapido abbassamento dell’udito patito dal protagonista viene vissuto in prima persona anche dallo spettatore, che sperimenta la continua alternanza tra il suono percepito da un normale udente e i rumori fastidiosamente ovattati con cui Ruben si ritrova a fare i conti. Il tutto supportato da una buona regia in grado di rafforzare tale contrapposizione anche sul piano visivo.

L’inizio di un percorso interiore

Il messaggio che il regista si impegna a costruire fotogramma dopo fotogramma risiede infatti nel folto schema di contrasti visivi e sonori che permeano l’intero film. La preponderanza del suono nei primi minuti è difatti sostituita dall’incredibile dinamismo generato dall’accurato movimento di camera che segue le varie manifestazioni del linguaggio mimico-gestuale impiegato all’interno della comunità per sordi in cui Ruben viene accolto. Qui, il protagonista intraprende un cammino interiore che lo rende capace di rieducarsi alla vita, all’accettazione di se stesso e al contatto con l’altro.

L’accettazione di sé

Il processo di piena consapevolezza di sé, dei propri limiti e del valore aggiunto che questi rappresentano è tuttavia, a questo punto della storia, ancora incompleto. L’intervento a cui Ruben si sottoporrà per recuperare l’udito attraverso l’inserimento di un impianto cocleare lo porrà dinanzi ad una verità che il responsabile della comunità aveva già tentato in precedenza di comunicargli: Ritornare a sentire può davvero condurlo alla felicità? È giusto credere che la sordità debba essere necessariamente ritenuta un handicap da superare?

La risposta a questi interrogativi sembra risiedere in una delle svariate scene “a specchio” del film: quel pianoforte di cui Ruben, in comunità, era stato in grado di percepire e di apprezzare a livello tattile le vibrazioni genera, dopo l’intervento, un suono che alle sue orecchie – a cui l’impianto “riconosce” un illusorio funzionamento – si presenta in modo talmente artificiale da risultare molesto, caotico, disturbante, persino alienante.

Il protagonista ritrova se stesso e la propria strada nel momento in cui comprende a pieno la lezione più profonda che questo percorso gli ha insegnato: la sordità è parte integrante della sua identità, lo rende e lo definisce essere umano al pari di tutti gli altri. Ruben non ha bisogno dell’illusione di un dispositivo che gli faccia credere che il suo apparato uditivo funzioni ancora perché la sua normalità, adesso, sta proprio “nell’ascoltare” il silenzio che le sue orecchie gli offrono, nella consapevolezza che avere un buon udito non inficia – ma, anzi, nel suo caso ha probabilmente potenziato – la capacità di ascoltare se stessi e gli altri.

Classe 1996, nata a La Maddalena ma cresciuta a Bari, è laureata in Traduzione specialistica. È una grande appassionata di film, serie tv e libri, su cui ama discutere e confrontarsi. Si è da poco addentrata nel magico mondo dei giochi da tavolo e, in particolare, dei giochi di ruolo. Crede fermamente nell’idea che “la bellezza salverà il mondo”, motivo per cui attribuisce all’arte e all’intrattenimento un valore assoluto.