David Fincher torna a dirigere un film inscenando la vita di Herman J. Mankiewicz. Una storia intrigante nascosta dietro le quinte di Quarto Potere di Orson Welles.
Il film, a livello visivo, ha saputo rendere omaggio all’opera di Welles del 1941, ma allo stesso tempo ha voluto attribuire la giusta riconoscenza allo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, nome che vediamo comparire nei titoli di coda di Quarto Potere affianco al giovane cineasta Orson Welles. La storia che si cela dietro alla stesura della sceneggiatura di Citizen Kane (Quarto Potere), affascina ed incuriosisce da molti anni tutti gli appassionati di cinema. David Fincher decide di far rivivere la società, la politica e tutte le sfaccettature della Hollywood degli anni ’30 attraverso questo film, attraverso il vissuto di Herman J. Mankiewicz, ma per tutti, semplicemente Mank.
Ma chi era Mankiewicz!?
La sua vita affascina, il suo spirito, come li suo genio creativo, lo rende una persona fuori dal comune. Tuttavia il suo sofisticato ed intellettuale talento lo portò molto spesso in contrasto con le case produttrici. Un aneddoto molto interessante mette in evidenza più di tutti la sua innata personalità e la spiccata vena provocatoria. Quando la Warner Brothers lo punì, costringendolo a lavorare ad un film di Rin Tin Tin, il nostro Mank scrisse un episodio pretendendo che il cane trascinasse un bambino dentro una casa in fiamme. Non proprio in linea con la natura della serie. Mank fu un’icona, oltre ad essere scrittore e giornalista. Lui prima di tutti capì l’importanza nevralgica del racconto e della storia. Mankiewicz era anche, e soprattutto, un alcolizzato. Dieci anni prima della sua morte scrisse:
Mi sembra di diventare sempre più un topo in una trappola di mia stessa costruzione, una trappola che riparo regolarmente ogni volta che sembra esserci pericolo di qualche apertura che mi permetta di scappare. Non ho ancora deciso di renderla a prova di bomba. Sembrerebbe comportare un sacco di lavoro e di spese inutili.
La storia di Herman J. Mankiewicz
Nato a New York il 7 novembre del 1987 , studiò alla Columbia e dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale nel corpo dei Marines, restò in Europa, precisamente a Berlino, lavorando come inviato del Chicago Tribune. Tornò in USA come critico teatrale per il New York Times e per il New Yorker. Mank era un abile osservatore della realtà che lui stesso viveva senza freni. Manhattan non poteva che essere lo scenario perfetto per le sue ispirazioni, suggestioni pronte per diventare cinema nella Hollywood degli anni trenta. Mank sapeva usare molto bene le parole, il suo stile conciso e ironico era perfetto per le didascalie del cinema muto.
L’avvento del sonoro, determinato dal film The Jazz Singer diretto da Alan Crosland nel 1927, determinò una nuova era per la settima arte. Lo stile brillante di Mankiewicz sposava appieno i canoni del nuovo modo di fare cinema, questa innovazione tecnica fece decollare a tutti gli effetti la carriera di Mank. La sua carriera, ormai lanciata come un treno in corsa, lo portò ad essere uno degli scrittori più pagati al mondo. Forse l’unico scrittore capace di influenzare davvero la narrazione cinematografica, facendole assumere dimensioni sempre diverse. Ma come tutte le cose belle, anche questa realtà idilliaca prima o poi doveva finire. Mank condivideva l’innata genialità con quei demoni che molto spesso guidano le sorti dei grandi artisti. Alcool e gioco d’azzardo costavano ben presto l’ostracismo delle major, ma specialmente la prematura morte nel 1953.
Qualcuno ad Hollywood scrisse
“Il suo comportamento lo faceva sembrare irregolare anche per gli standard degli ubriachi di Hollywood”
Aspettative
Due elementi avevano elettrizzato l’attesa per questo film. Il primo è la storia del protagonista, Herman J. Mankiewicz, il secondo è David Fincher stesso. In passato il regista aveva già inscenato fatti realmente accaduti, come in Zodiac nel 2007 e The Social Network del 2010. Anche la serie Mindhunter, sempre prodotta da Netflix, racconta fatti di cronaca che hanno caratterizzato la storia americana.
In queste rappresentazioni la caratterizzazione del personaggio è marcata, evidente e coinvolgente. In Zodiac addirittura riesce a trasmetterci le sfumature di un folle criminale che per la maggior parte del film non entra nella narrazione visiva.
Insomma, Fincher a livello di immagini aveva dimostrato di saper dare le giuste sfumature alla narrazione e ai personaggi. Herman J. Mankiewicz con la sua storia era il soggetto perfetto per continuare questa serie di acclamati successi.
Dopo i primi trenta minuti, percepisci subito il voler mettersi in gioco da parte del regista mettendo sul tavolo una narrazione che non ti aspetti. Non è un film di oggi che parla del passato. È un film di oggi che parla del presente, un presente, ambientato nel 1940.
È giusto rapportarsi con le prime sensazioni, quelle a “caldo”, quelle che di getto descrivono il tuo primo stato d’animo. Ma è anche giusto riflettere, ciò che avremmo voluto vedere noi, non può, e non deve essere un metro di giudizio del film. Le nostre volontà non possono influire su ciò che il film ha inscenato.
Le origini del film
Il film prende vita da una sceneggiatura scritta da Jack Fincher (morto nel 2003), padre dell’acclamato regista David. L’idea di trasporre lo scritto del padre dei primi anni ’90 è sempre stata nelle volontà del figlio. Dopo la realizzazione del suo terzo lungometraggio, The game del 1997, il regista era pronto a lavorare allo script, con Kevin Spacey e Jodie Foster come protagonisti. Le condizioni che David Fincher ricercava erano imprescindibili, come ad esempio, l’utilizzo del bianco e nero. Questo dettaglio (come altri) scoraggiò molte case di produzione. L’idea di produrre un Biotopic su Herman J. Mankiewicz non abbandonò mai la testa del regista. A più di 20 anni di distanza, grazie a Netflix finalmente vediamo questo suo sogno realizzarsi.
Facciamo chiarezza
Ecco la prima trama di Mank pubblicata da Netflix Italia:
La Hollywood degli anni ’30 è rivalutata attraverso gli occhi e la graffiante ironia dello sceneggiatore alcolista Herman J. Mankiewicz mentre termina “Quarto potere”.
Ritengo questa una sfumatura molto importante che può mutare addirittura il giudizio finale del film. Da questa sinossi, che compare anche nella descrizione del film su Netflix, si sono sviluppati titoli, articoli e teorie postume che questo film fosse sulla vita dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz. Descrivere qualcosa con la visione di un personaggio, non vuol dire a tutti costi narrarne la vita, ma semplicemente interpretarne il suo punto di vista. David Fincher ci vuole accompagnare nella Hollywood degli anni ’30 come se fossimo comodamente seduti sul trenino turistico degli Universal Studios, e la nostra guida fosse Herman J. Mankiewicz.
La linea di confine è molto sottile, fosse stata una vera e propria narrazione della vita di un folle genio, quale era il nostro Mank, allora il personaggio e la storia mancavano di carattere, ma questo non è l’intento descritto dalla sinossi e quindi da David Fincher. Alla fine, come dice Mank nel film:
Non si può cogliere l’intera vita di un uomo in due ore
Il lavoro del regista è molto più profondo, il tuffo nel passato è molto ampio, gli occhi e la penna di Mank ci aiuteranno in questo lungo viaggio.
Un grande omaggio o una grande provocazione?!
Il film è un citazionismo sfrenato a Quarto potere, ma nel senso più bello e positivo che si possa pensare. Richiama la struttura narrativa non lineare, con salti temporali avanti e indietro nel tempo, che lentamente vanno a comporre la fotografia completa della visione del nostro protagonista Mankiewicz. Il montaggio, curato dal due volte Premio Oscar Kirk Baxter rispecchia in maniera oculata quello di Quarto potere. La fotografia di Erik Messerschmidt (Mindhunter) non è da meno, e anch’essa merita un grande plauso per il lavoro fatto. Fino a qui, tutto sembra elogiare ed omaggiare il grandissimo Orson Welles. Ma la storia fa ben altro.
Il nostro Mank riflette attraverso lunghi flashback sul suo passato, sul rapporto avuto con William Randolph Hearst e mette sul piatto della narrazione anche il ruolo avuto dagli studios all’interno della lotta politica. Politica che si stava preparando ad una campagna elettorale per l’elezione del Governatore della California del ’34, tra il repubblicano Frank Merriam e il democratico socialista Upton Sinclair. Argomenti che ritroviamo anche in Quarto potere. Ma Welles in tutto questo?!
Il regista è una figura completamente marginale e ininfluente per questa narrazione. Compare poche volte sul grande schermo, delle volte sentiamo la sua voce all’altro capo del telefono, ma nulla di più. È completamente estraneo alla tematica e alla stesura della sceneggiatura di quello che poi sarà un grande film per la storia del cinema.
Sembra quasi che David Fincher voglia farci credere che Welles fosse un miracolato, al quale sono stati attribuiti meriti non suoi. Scavando nel passato di David troviamo dichiarazioni che avvalorano questo messaggio.
Colpo di scena
Nel suo pensiero folle, di sminuire Welles, come se quest’ultimo avesse girato solo Quarto potere, trovo una coerenza fantastica con il personaggio di Herman J. Mankiewicz. Perché il messaggio di Fincher passa attraverso un’ironia tagliente, una narrazione profonda e ricca di numerose sfumature, degne del miglior Mank.
Fincher dichiara:
Non metto mai mano alla sceneggiatura perchè non è roba per me.
Interessante analizzare come questa sua “confessione” sia vera, alla fine se andiamo a vedere ogni suo film è scritto da un Herman J. Mankiewicz qualunque al quale lui ha rubato il successo.
La mia è una semplice provocazione e con questo non voglio dire che David Fincher non attribuisca il giusto credito o che ruba sceneggiature. Ma come ben sappiamo, nel gergo comune il film è del regista, in pochi ricordano ed approfondiscono il ruolo dello sceneggiatore o di altre figure di uguale importanza.
Il Cast in evidenza
Non scopriamo certamente con questo film il camaleontico talento di Gary Oldman, ma di certo possiamo confermare che per l’ennesima volta la sua enorme attitudine attoriale. La sua interpretazione cosi “leggera”, ma allo stesso tempo efficace, mette in scena tutte le più complesse sfumature di un personaggio ricco di interessati aspetti caratteriali. Magnetica e ingannevolmente innocente Amanda Seyfried veste i panni Marion Davies. Nonostante un minutaggio ridotto, sono sicuro si possa affermare sia forse la miglior prova attoriale da parte dell’attrice americana. Tanto elegante quanto seducente, il suo personaggio non lo dimenticherete facilmente. Orson Welles interpretato da Tom Burke nonostante lo scarsissimo minutaggio offre una prestazione che incarna tutto il carattere deciso del giovane talento. Lily Collins interpreta Rita Alexander, la ragazza che si deve rapportare con Mank durante la sua convalescenza, un interpretazione abbastanza piatta, non sfrutta al meglio le situazioni emotive che il suo personaggio subisce nel corso della storia.
Per concludere
Un film che fa rivivere sapori del passato, una narrazione che si discosta certamente da quella odierna e che potrà fare annoiare molte persone. “È uscito l’ultimo film di Fincher” questa frase nella nostra mente scaturisce una serie di collegamenti involontari ai suoi film che più ci hanno affascinato, poi la sorpresa arriva per tutti. La differenza sta nel metabolizzare la situazione e capirne l’idea. Questo non vuol dire per forza apprezzare o condividere tale scelta, ma aiuterebbe ad esprimere una valutazione più ampia che va ben oltre dal semplice giudizio qualunquista e privo di senso “Bello” o “Brutto”.
Io ringrazio David Fincher per il coraggio di portare avanti un’idea come questa, un idea che spingerà molte persone a scoprire film come Quarto potere (per chi ovviamente non conosca già quest’opera) o leggere libri riguardanti il pensiero di Welles, insomma porterà curiosità, curiosità di scoprire una narrazione diversa.
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