SuperData analizza i ricavi delle microtransazioni nell’industria videoludica dal 2012 ad oggi e i dati pubblicati sono pesanti come macigni. E’ tempo di un nuovo editoriale, dopo quello sul single-player.
Fondata da ricercatori veterani del settore dei videogiochi, SuperData è il principale fornitore mondiale di market intelligence che copre i mercati globali di giochi free-to-play, console digitale, mobile, PC, streaming media, eSport e realtà virtuale. Un’autorità nel settore dello snocciolamento dati statistici ed economici del circus videoludico.
La querelle su Battlefront II, con l’odio dei videogiocatori arrivato a livelli inauditi, a causa della presenza massiva delle microtransazioni in game e alle oramai famose Loot-Box su cui oramai chiunque si sta pronunciando (considerandole o meno “gioco d’azzardo”), ha fatto si che SuperData, in un articolo ufficiale sul proprio sito, ponesse l’accento sul comportamento dei videogiocatori stessi, gettando luce su una questione che va analizzata meglio.
Se infatti da un lato il comportamento delle aziende produttrici di videogames, che inseriscono sempre più spesso una enorme quantità di contenuti a pagamento nei propri giochi (sia free-to-play che non), viene continuamente demonizzato dagli utenti, dall’altro lato i dati parlano di un incremento massivo dei soldi spesi in microtransazioni dal 2012 ad oggi.
Insomma SuperData arriva ad una conclusione semplice
Sebbene i giocatori siano pronti a lamentarsi del fatto che gli editori monetizzano eccessivamente contenuti aggiuntivi per i giochi, essi stessi continuano a supportare la monetizzazione basata sui servizi con i loro portafogli.
La domanda però sorge spontanea: calcolando che una buona fetta del pubblico che usufruisce del mercato videoludico è minorenne, siamo sicuri che questo portafogli sia il loro?
PROFESSORE MI VOLEVO GIUSTIFICARE
Insomma, SuperData fa quasi intuire che le software house siano giustificate ad inserire sempre più microtransazioni nei loro giochi, perchè il pubblico risponde massivamente, pagando e spendendo molti più soldi.
Aggiunge poi che i piani futuri delle stesse software house siano quelli di rinunciare totalmente ai ricavi fissi delle vendite dei loro prodotti, passando quindi interamente al sistema free-to-play, rendendolo meno free, aumentando quindi l’ecosistema di contenuti a pagamento, che permetteranno ai giochi stessi di sopravvivere e di generare profitti costantemente nel tempo.
Basta vedere le tabelle pubblicate sul sito per capire che l’idea di fondo è giustissima.
In questo primo grafico ad esempio si analizza il fatturato derivato dalla vendita dei giochi completi e quello derivante dalla vendita di contenuti aggiuntivi e servizi.
In blu scuro abbiamo vendite giochi completi per pc e console.
In azzurro abbiamo contenuti aggiuntivi per giochi completi di pc e console.
In celeste abbiamo invece contenuti aggiuntivi per giochi free-to-play.
Sebbene anche le vendite dei giochi completi siano in crescita del 120%, notiamo innanzitutto una crescita esponenziale dei ricavi generati da contenuti aggiuntivi, che si attesta al 146%, ma soprattutto notiamo che, le cifre relative ai contenuti stessi, sono più del doppio dei ricavi derivanti dalle vendite dei giochi completi.
Nel secondo grafico invece il sito si focalizza sul fenomeno Ultimate Team, relativo a Fifa17, ponendo l’accento sul fatto che, mentre nella vendita del gioco fisico o virtuale ci sia il calo fisiologico dopo il boom di acquisti nei primi mesi dall’uscita (ricavi segnati in azzurro nel grafico), i ricavi delle microtransazioni associate ad Ultimate Team siano costanti nel tempo, garantendo al sistema di generare un picco di guadagno anche molti mesi dopo l’uscita del gioco (visualizzati con il colore rosa nel grafico).
A questo punto appare chiarissimo che, se i videogiochi sono un buisiness, pare impossibile che le software house non seguano queste proiezioni per pianificare il futuro.
Ciò giustificherà qualsiasi tipo di azione in tal senso?
A nostro avviso No!
Perchè c’è modo e modo di “microtransare” e non bisogna mai perdere di vista le caratteristiche del pubblico a cui un prodotto si rivolge. Creare sempre più spesso contenuti randomici a pagamento che trasformano i giochi nei famosi pay-to-win (ed in molti casi in pay-to-try-to-win-ma-non-è-detto-che-win) è un qualcosa che funziona benissimo con gli adulti… figuriamoci con bambini e adolescenti.
Si possono innescare meccanismi che camminano su un sottile filo, tra legalità e illegalità, e tra l’altro le polemiche di questi giorni lo dimostrano, altrimenti non si sarebbe creato un tale caso mediatico.
Purtroppo il Dio Denaro è l’unico vero giudice di tutta questa questione e crediamo che alla fine, giustificate o no, le software house arriveranno quasi tutte alle stesse conclusioni, ma la speranza si sa, è l’ultima a morire.
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